19 Aprile 2024
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Sabino Cassese: nessun pericolo per la Costituzione

La giornalista Federica Fantozzi intervista, su L’Unità di oggi, Sabino Cassese, ex membro della Corte Costituzionale e professore emerito alla Scuola Normale Superiore.

Professor Sabino Cassese, in un recente convegno Giuliano Amato ha definito un fatto positivo il solo riformare la Costituzione, dopo decenni. Condivide questa premessa?
«La Costituzione italiana è stata riformata 15 volte, quella tedesca, che ha una data di nascita simile, 58 volte. Meuccio Ruini, il presidente della Commissione dei 75 che scrisse la Costituzione, poi approvata dall’intera Assemblea costituente, nel discorso finale, prima dell’approvazione, dichiarò più volte che la Costituzione non era perfetta, che diversi punti avrebbero dovuto essere rivisti alla luce dell’esperienza. Infatti, nella Costituzione fu introdotto un articolo che prevede la procedura di revisione costituzionale. La sola forma repubblicana non può essere soggetta a revisione. La Costituzione tedesca ha molte più disposizioni protette da quella che viene chiamata clausola dell’eternità. Eppure è stata soggetta a modificazioni quattro volte superiori a quella italiana».

Perché, in ogni caso, riformare la Costituzione?
« L’esigenza di riforma è stata avvertita circa quaranta anni fa. Sono stati fatti molti tentativi, tutti abortiti. La ragione sta nel mutamento del contesto istituzionale generale. Nel 1947, quando la Costituzione fu approvata, non esisteva l’Unione Europea e non si era neppure avviata la globalizzazione. Oggigoverni e parlamenti nazionali debbono rispettare standard sovranazionali. I titolari di quasi tutte le più alte cariche dello Stato dialogano quotidianamente con molti dei duemila organismi regolatori universali. Sono questi che funzionano da contrappesi agli organismi nazionali. Insomma, il mondo è cambiato; non dovrebbe quindi cambiare anche la Costituzione? A questi cambiamenti esterni si aggiungono quelli interni: qui, da noi, il potere pubblico è diviso tra Stato e venti regioni, tutte dotate di poteri legislativi. E l’esercizio del potere legislativo da parte di Stato e regioni è sottoposto al vaglio di costituzionalità e a quello di compatibilità comunitaria». 

Il Senato delle Regioni come forma di addio al bicameralismo perfetto può funzionare? Magari sul modello tedesco?
«Le migliori menti tra i costituenti erano favorevoli o al monocameralismo o a un bicameralismo differenziato. Cito solo Massimo Severo Giannini, l’uomo che preparò il lavoro dei costituenti e aiutò Ruini e Basso, e Mortati, la mente più lucida tra i democristiani. I timori di De Gasperi, ai quali poi si sommarono quelli di Togliatti, indussero a scegliere il bicameralismo paritario, per la sua funzione “ritardatrice” (il termine fu usato da Mortati). L’esperienza concreta, in quella che Scoppola ha chiamato “la Repubblica dei partiti”, ha mostrato che le due camere hanno operato – salvo pochi periodi – come un doppione, con maggioranze simili. La funzione di riequilibrio, di bilanciamento, di condizionamento che si vorrebbe svolta dalla doppia rappresentanza è molto meglio svolta oggi dal Parlamento europeo e dai consigli regionali. La semplificazione del procedimento legislativo ordinario consentirà anche di evitare l’abuso della decretazione d’urgenza e di rimettere su basi più corrette il rapporto tra governo e Parlamento».

Un punto a cui i cittadini sono sensibili è il taglio dei costi. Va bene ridurre i senatori e abolire enti come il Cnel o era meglio abbassare il numero parlamentari? O piuttosto agire con altri strumenti?
Quello della riduzione dei costi diretti (ad esempio, attraverso l’eliminazione delle indennità dei senatori) non è l’argomento principale a favore della riforma costituzionale. Lo è piuttosto la riduzione dei costi indiretti, quelli che paghiamo per la lentezza del procedimento legislativo con due camere-doppione».

Tra le critiche alla riforma c’è quella di ricentralizzare molte materie, sottraendole alle Regioni. Il governo, invece, sostiene che così si ridurranno i conflitti di attribuzione dei poteri. Quale è la sua opinione?
«Il punto di partenza per rispondere a questa domanda non è solo la riforma del Titolo quinto della seconda parte della Costituzione, fatta nel 2001, bensì anche la giurisprudenza quindicennale della Corte costituzionale su tale riforma. Ora, la Corte, dinanzi alle violazioni costituzionali delle Regioni, ha dovuto fortemente contenere l’espansione regionale in aree di interesse nazionale e ridefinire i confini relativi alle materie sulle quali legislazione regionale e legislazione nazionale concorrono. La riforma costituzionale fa una scelta, quella di eliminare le materie di legislazione concorrente. Per farlo, stabilisce che lo Stato adotta le norme generali e comuni, le Regioni quelle differenziate e locali. Questo non vuol dire riaccentrare, significa solo distinguere meglio, senza lasciare il difficile compito tutto nelle mani della Corte Costituzionale. Poi, l’esperienza ha mostrato che alcune materie erano state trasferite alle Regioni senza tener conto del loro carattere nazionale (penso a quelle attinenti alle grandi reti). Dunque, la riforma ridefinisce la linea di confine tra centro e periferia anche sulla base dell’esperienza degli ultimi quindici anni».

Molti critici, da Eugenio Scalfari a Gustavo Zagrebelsky, da Stefano Rodotà a partiti di opposizione come Forza Italia e Cinquestelle lanciano un allarme democratico leggendo la riforma in combinato con la legge elettorale, l’Italicum. Anche nella minoranza Pd ci sono perplessità su questo versante. Altri come l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non vedono rischi. Questa tesi ha fondamento?
«La riforma costituzionale riguarda due punti del sistema costituzionale: Senato e Regioni. Non tocca il sistema parlamentare, che rimane immutato. Né tocca la formula elettorale, che è rimessa a una legge ordinaria. Non si può giudicare la riforma costituzionale prendendo in considerazione qualcosa che è estraneo ad essa. Detto questo, debbo aggiungere che non vedo ragioni per opporsi così radicalmente alla legge elettorale. La sua caratteristica principale consiste nel premio di maggioranza dato alla forza politica che raggiunge il 40 per cento dei voti o che si aggiudica il ballottaggio. Questa scelta è criticata perché – si dice – così governerà una minoranza. Ma quasi tutte le democrazie sono governate da minoranze (Cameron e Obama governano con un consenso elettorale inferiore al 40 per cento). Gli esperti della materia, infatti, dicono che la democrazia non è il governo della maggioranza, bensì quello della più forte minoranza».

Ha senso l’ipotesi di spacchettare il quesito come vorrebbero, tra gli altri, i Radicali?
«I proponenti di questa singolare idea si sono resi conto della sua inattuabilità. Bisognerebbe, infatti, dividere articolo da articolo e non si sa chi sarebbe intitolato a farlo. E – se anche si facesse – si potrebbero avere poi risultati contradittori: il Senato in un articolo scompare, in un altro rimane. Il disegno di legge è stato approvato dal Parlamento con un voto unitario e con un voto unitario va sottoposto al giudizio popolare».

Vede il rischio che da referendum sul merito l’appuntamento di ottobre si trasformi in un plebiscito sul premier Renzi e dunque sul governo?
«Lo strumento referendario è un classico esempio di “single issue politics”: il popolo decide su un solo quesito. Il referendum su cui dovremo pronunciarci ci chiede di dire la nostra sulla modifica di alcuni articoli della Costituzione. Giuridicamente, il mancato passaggio non comporta dimissioni del governo, così come il passaggio non comporta fiducia al governo».

Alla fine, quale valutazione complessiva dà della riforma costituzionale e del dibattito in corso?
«Gli oppositori evocano pericoli autoritari che mi paiono inesistenti. Riaffiorano il timore del tiranno e la preoccupazione per il sistema parlamentare. Si mettono insieme lo stile decisionista del governo con la riforma costituzionale, che sono due cose diverse. Circa quello che ho definito stile decisionista del governo, osservo che non ci si può lamentare un giorno che l’Italia è il Paese dei rinvii e il giorno dopo che il governo decide troppo sollecitamente. Se – come credo –va giudicata la riforma costituzionale in quanto tale, penso che l’abbandono del bicameralismo perfetto o paritario, già auspicato – lo ripeto – da molti costituenti, e più volte proposto nel lungo processo più che trentennale di discussione sulla Costituzione, sia da approvare».