20 Aprile 2024
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Jón Kalman Stefánsson, Grande come l’universo, Iperborea 2015, pag. 440, € 19,00. Traduzione e postfazione di Silvia Cosimini.

Chi ha letto I pesci non hanno gambe, dello stesso autore (Reykjavìk 1963), uscito per Iperborea nel 2015, ha avuto la consapevolezza di un narrare interrotto, e Grande come l’universo ne è la dimostrazione perché lo completa.

Ari è ritornato dalla Danimarca dopo aver abbandonato moglie, figlie e lavoro editoriale. E’ volato a Keflavík, una landa nera e desolata dove, dopo che “le quote ittiche sono sparite, l’esercito USA se n’è andato, non resta molto altro, se non la disoccupazione e i tre punti cardinali, il vento, la lava, l’eterno” e la gente si annoia.

Ari è nipote di Oddur, una figura mitica della pesca nei fiordi, secondo il quale si diventa uomini solo sul mare. Sul mare voleva educare anche il figlio adolescente, per cui la madre Margret sognava gli studi, e quel figlio vi ha perso la vita. Non è il primo che il mare le ha rubato. Il giorno in cui lei cercò di salvare un altro figlio dalle onde, lasciò un neonato, Jakob, tra i ciottoli della spiaggia, dove lo raccolse una donna pietosa che ne aveva sentito il pianto.

Senza dubbio questa storia di famiglia ha influito sulle scelte di Jakob, che non ha seguito la via del mare deludendo il padre. Ha perso presto la moglie, e suo figlio Ari è cresciuto con la matrigna che ha considerato un’usurpatrice; la figura della madre malata, al limite delle possibilità di ricordo un bambino, ricostruita tra realtà e sogno, è di una bellezza straziante.

Dopo la morte di lei non c’è stato più un gesto d’affetto, troppo chiuso Jakob, non uso ad esternare i propri sentimenti, incapace di trovare le parole; privo di volontà di dialogo Ari, perseguitato da ricordi familiari dolorosi.

Il ritorno ha come punto di forza il suo incontro con Jakob, ora sofferente, abbandonato dalla sua compagna e ricoverato in un istituto per anziani, dove una coetanea è divenuta un angelo custode: per lei Jakob è “il suo fiore felice”, perché anche se è stata una puttana, una ex ubriacona, “la vita vuole un pochino di bene anche alle erbacce”.

L’incontro è difficile, non scorrono le parole nemmeno ora, dopo tanti anni, ognuno arroccato su se stesso. Il tempo intanto ha disseppellito antiche storie, verità celate, una lettera di Margret ad un famoso scrittore, in cui chiedeva consigli per il futuro del figlio che non voleva destinare al mare, i diari segreti di lei travolta da una passione irrefrenabile per un uomo che le insegnava a osservare le stelle.

Anche Jakob ora affida alla carta le parole che non ha saputo dire al figlio -non è mai troppo tardi per dire le parole che contano- e vuole morire davanti al mare, perché sente di appartenergli, anche se lo ha rinnegato.

C’è fondamentalmente una ricerca d’amore in tutti i personaggi, ne sono la testimonianza più forte i bambini nell’Istituto: “Piangono nel cuscino, gli sussurrano i nomi dei genitori, del nonno e della nonna, dei fratelli e delle sorelle, del cane, di tutti quelli di cui sentono la mancanza. Il cuscino recepisce ma non consola nessuno”.

Se c’è stato questo vuoto d’amore, Stefánsson offre comunque una possibilità di recupero, perché “se è Dio che dà le carte, questo è certo, ciascuno gioca la mano che ha, è il suo libero arbitrio”. Del resto la preghiera che Jakob riesce a pronunciare -gliela insegna Anna- recita così: “Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza di capirne la differenza”.

La scrittura, la poesia, sono nelle corde della famiglia di Ari, motivo costante e salvifico dei romanzi di Stefánsson, ma ora subentra una delusione profonda, una caduta di fiducia nelle possibilità della letteratura di aiutare questa umanità disperata e folle: “Non vi rendete conto che i libri non cambiano nulla? Né i miei né quelli degli altri?” grida Ari ad un interlocutore.

Chi sia questo interlocutore che è presente in prima persona non è dato sapere. Un angelo? Uno fantasma buono? La coscienza stessa di Ari? L’autore ci ha educato a originali voci narranti nei suoi precedenti romanzi. Indimenticabile la trilogia Paradiso e inferno (2011), La tristezza degli angeli ((2012), Luce d’estate, ed è subito notte (2013), tutti pubblicati in Italia da Iperborea. Solo nelle ultime pagine crediamo di aver capito qualcosa di questa prima persona narrante.

 

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.