19 Aprile 2024
Sun

Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli, Baldini & Castoldi srl 2013, € 10,00, pag. 160

Nel mare non ci sono i coccodrilli, ma per quei ragazzini afghani che trovano il coraggio di passare dalle coste turche a Mitilene su un gommoncino gonfiato da loro, rattoppato con lo scotch, con i salvagente ormai inservibili, un remo spezzato, di notte e senza aver mai remato né visto il mare, quella distesa cupa d’acqua può senza dubbio contenerli.

Questo libro, che riporta la storia vera di Enaiatollah Akbari, da lui raccontata allo scrittore Fabio Geda, ha visto la sua prima uscita nel 2010, ma parlarne non è fuori tempo, sia perché i libri non invecchiano, sia perché storie come questa e anche peggiori si ripetono ogni giorno. Peggiori perché lui ce l’ha fatta, a migliaia invece popolano il fondo del mare o sono bloccati sul percorso o sono morti sul cammino, come quelli che incontrò sulle montagne tra l’Iran e la Turchia, ventinove giorni di marcia: erano persone congelate, sedute, come se aspettassero qualcuno. Poi tre giorni nel doppiofondo di un camion, ripiegato su se stesso in cinquanta cm di spazio, che quando uscì lo fecero rotolare come una palla e poi lui pisciò sangue per una settimana.

Era cominciato da Nava, un piccolo paese dell’Afghanistan, il cammino di Enaiat, al tempo del regime talebano: suo padre, hazara e sciita, era obbligato dai sunniti ad andare con un camion a prendere la merce nell’Iran sciita, ma il camion un giorno fu assalito e il ragazzino sarebbe stato preso schiavo come risarcimento. Il padre era morto quando lui aveva forse sei anni – lì non c’era  anagrafe- e per parecchio tempo la madre lo aveva sottratto alle ricerche nascondendolo in una buca scavata nel terreno. Ma col tempo la buca non lo protegge più. La scuola è stata chiusa dai talebani che hanno sparato al maestro.

Il più grande sacrificio d’amore, che diventa al momento stesso dono di vita, a quel punto è il gesto della madre di fare un viaggio in Pakistan, a Quetta, insieme al figlio, e nel sonno lasciarlo in un samavat, una specie di casa per i viaggiatori di passaggio. Al mattino lui si trova da solo in un luogo sconosciuto.

Tra la morte certa e la possibilità di sopravvivenza, la madre ha scelto, lo ha affidato a se stesso ed alla buona sorte, dopo aver ottenuto tre promesse, prima di dormire: non usare droghe, non usare armi, non rubare.

Senza soldi né casa né lavoro, piccolo forse di dieci anni, senza riferimento alcuno, Enaiat si arrangerà in tutti i modi per sopravvivere, costretto ai lavori più degradanti e schifosi, schiavizzato, sempre in pericolo, costretto a dormire nello sporco, a scoprire che uno stormo di ragazzini hazara disgraziati come lui popolano le parti più povere della città, calano dai tetti come pipistrelli e sperano nella buona sorte. Dal Pakistan all’Iran, rimpatriati varie volte con obbligo di pagare il rientro, da Esfahan a Kom a Teheran e poi l’impossibile viaggio attraverso le montagne, fino alla Turchia, poi la Grecia e l’Italia.

I trafficanti di esseri umani diventano indispensabili, e si fanno pagare bene. Se i fuggitivi non possono pagare i viaggi, scontano la cifra in mesi e mesi di lavoro non pagato, schiavi, nascosti alle visite della polizia nei cantieri. Ogni movimento fuori del luogo di lavoro è rischioso, in un eventuale spostamento in autobus ti scoprono immediatamente ai posti di blocco: in Iran è terrorizzante il pensiero delle carceri di Telisia e Sang Safid: “Quando ero in Afghanistan ho incontrato per strada due ragazzi che erano diventati matti. Parlavano da soli, urlavano, si pisciavano addosso. E qualcuno, ricordo, mi aveva detto che erano stati a Telisia e Sang Safid”.

Sempre tra la vita e la morte. Ma “la scelta di emigrare – dice Anaiat – nasce dal bisogno di respirare”. E poi arriva anche un “posto per crescere… Lo riconosci perché non ti viene voglia di andare via. Certo, non perché sia perfetto. Non esistono posti perfetti. Ma esistono posti dove, per lo meno, nessuno cerca di farti del male”

In Italia -arrivato fortunosamente e con rischi enormi a Venezia- trova gesti di umanità e di accoglienza che lo stupiscono, come è già successo in Grecia dove una donna lo ha sfamato e rivestito.

E’ stato fortunato, è vero, ma anche coraggioso e intelligente. In Italia ha voluto imparare rapidamente la lingua, perché, se hai bisogno di un interprete quando ti convocano per decidere sul permesso di soggiorno come rifugiato politico, non puoi comunicare le tue emozioni, invece “Se parli direttamente con le persone trasmetti un’emozione più intensa, anche se le parole sono incerte e la cadenza è diversa”.

La voce di sua madre al telefono, ritrovata in Afghanistan grazie ad un complesso filo di amicizie, la sente dopo otto anni. Ma di lei prima sente il sospiro: “ E dalla cornetta è uscito solo un respiro, ma lieve, e umido e salato. Allora ho capito che stava piangendo anche lei…Siamo rimasti così, in silenzio, fino a quando la comunicazione si è interrotta”

 

 

 

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.