18 Aprile 2024
Sun

Paolo Paci, CAPORETTO ANDATA E RITORNO, Corbaccio, Milano 2017

Quello che c’è in questo libro è un senso di normalità. Potrebbe sembrare poco allettante esordire citando questo sentimento, invece è quello più utile a capire che cosa siamo se davvero avessimo, noi italiani, tempo e voglia di ricordare il nostro recente passato. La Patria è parola a volte infame a volte infamata, eppure c’è nella trattazione di Paci tanta patria, tanta Italia, come se l’Italia delle regioni, nata dalle due guerre mondiali del Novecento, potesse essere nazione in modo naturale. Ma non possiamo dire naturale di un sistema complesso come una società, soprattutto quando si tratta di corpi storici, come lo è una nazione. E tuttavia leggere Caporetto andata e ritorno, farebbe bene a tanti di noi, non solo ai politici che giocano sulle parole e sulla paura, non solo agli editorialisti che esprimono spesso opinioni senza approfondire o senza rammentare da dove veniamo. Farebbe bene a noi italiani come popolo, come cittadini di una comunità nazionale.

Paci vorrebbe iscrivere, e la iscrive, la Prima Guerra Mondiale, nell’alveo del mito, eppure le tante storie, i rivoli di racconti e ricordi, mappe e battaglie fanno di questo libro un resoconto umanissimo e narrativo, più che epico.

Già l’inizio merita la massima attenzione. Vorrei che Gentiloni, Renzi, Salvini, Meloni, leggessero il paragrafo “La toponomastica degli eroi”. Di per sé ricorda cose che sono talmente radicate nel nostro cervello che il sussulto diventa ancora più forte. Via Piave è ovunque, dice Paci, anche a Canicattì (paese di origine dei suoi nonni), in Sicilia. Via Montegrappa è a Siracusa, e Via Monte Grappa a Ragusa. Sì, operazione di propaganda identitaria fascista, ma quanta unità ha garantito spesso la toponomastica nazionale?

Eppure a fronte di tante strade e piazze del Piave e del Monte Grappa, non ne esiste una – sostiene l’autore del libro – che citi Caporetto. Perché Caporetto è la disfatta italiana, la sconfitta che brucia. E a un secolo di distanza da quella battaglia, da quella guerra, ancora oggi, nello sport, nel parlare comune si sente dire, per una cosa andata male, per una sconfitta: “è una Caporetto”.

Mio nonno, come quello di Paci, ha fatto la Grande Guerra. Scarpinò dalla Toscana fin su, in Alto Adige e fu preso prigioniero dagli austriaci che gli rifilarono un bel calcio nel sedere per infilarlo dentro una gabbia. Per fortuna fu liberato e successivamente insignito delle Croce dei Cavalieri dell’Ordine di Vittorio Veneto e della medaglia d’oro al valore militare. Quanta Italia diceva mio nonno, non l’ho più sentita dire a nessuno. Sfilacciamenti individualistici, ideali di parte e manichei, voglie belluine di secessioni, pretese di piccole patrie e scomodi dialetti. Siamo qui., in questa attualità poco confortante, e Caporetto, ci dice Paci, più delle vittorie, ci viene in soccorso. Se noi siamo Italia, lo dobbiamo tanto anche a questa piccola città.

Quello di Paci è un viaggio sentimentale dall’Isonzo al Piave, nelle terre dei nostri nonni combattenti, tra le storie dei testimoni di quei borghi, dove fu fatta l’Italia, o almeno il suo più alto sentimento popolare.

E avanti attraverso la vicenda di una moglie eroica, Clara Immerwahr, che cercò di fermare la scoperta del cosiddetto “gas mostarda” del marito. Gas che diventò poi il temuto e orrido Zyklon B, usato nelle docce dei lager nazisti.

E attraverso “la notte di Caporetto [che] è nera e silenziosa, una notte ideale per riflettere sui paradossi della Grande Guerra”; la storia dei poveri cristi affamati buttati alla trincea e al macello – e l’autore cita Giolitti e Betrand Russell insieme.

E poi Cividale e Udine; il romanzo Un anno sull’altopiano e il film con Gian Maria Volonté; la guerra “dei morti di fame contro morti di fame”.

E poi l’ossario militare del Grappa; il cimitero-sacrario di Redipuglia: luoghi immolati alla memoria, forse retorici, ma tanto utili per costruire una narrazione di un Paese che vuole ancora definirsi tale.

Infine, il tratto più intrigante del libro. Quella pagina dove Paci spiega che a chiunque abbia parlato di Caporetto, tra amici e sconosciuti, anche con un buon livello scolastico, tutti gli hanno risposto: “Ah, Caporetto, in Friuli”.

Ecco allora a cosa serve questo libro. Ecco quale sarebbe lo scopo della memoria. Perché la memoria delle vicende storiche, delle storie familiari, paesane e personali, fanno la storia collettiva e l’identità di una comunità. Perché, infatti, Caporetto non è affatto in Friuli.

Caporetto oggi si chiama Kobarid ed è in Slovenia.