Vittorio Cotronei, Colonnello astrale NOF4, Edizioni ETS, Pisa 2024
Il paesaggio è appesantito, calcinato dal sole, gonfiato dal caldo, orfano di pioggia. Mutato. Sono, questi, i caratteri che, come sappiamo, troviamo nei testi in cui la siccità, la polvere, i muri minacciati dalla erosione, il sudore, sostanziati in simbolo, sono i segni della peste, di antiche disgrazie attribuite dal popolo, con inconsapevole blasfemia, alla punizione divina. Da Camus a Manzoni a Steinbeck. E qui mi fermo.
Comunque devo per forza aggiungere che il paesaggio col quale ho iniziato la mia riflessione, questa volta, lo troviamo proprio a Volterra, una città che non ho mai associato (io sono nato lì e li ho vissuto la prima parte, quella dello slancio vitalistico e formativo, della mia vita e per quanto, per dirla con Pascoli, io viva altrove, da Volterra non me ne sono mai andato davvero, almeno col pensiero che anche adesso lungamente indugia nei tratti, per me pittorici, alla Vedder, alla Corot, alla Pedersen, che sono fra Monte Voltraio e il morbido scivolare dell’occhio verso il mare, verso la Val di Cecina), non ho mai associato, dicevo, al caldo equatoriale, alla sudorazione, ai caratteri climatici dei paesi subtropicali. Ma questa è proprio Volterra, asmatica per mancanza di vento, dove Marino Maltese, protagonista di una trilogia inventata, anzi, dettata da qualche entità nascosta a Vittorio Cotronei, si trova per indagare sulla scomparsa di tre bambini.
La storia attiene a un sistema trittico: il noir, la fantascienza (é bene ricordarsi che Marino è un ufologo conosciuto e consultato non da associazioni di esaltati complottisti, innamorati di dietrologie cosmiche, ma da strutture raffinate interne alle istituzioni dello Stato) e, in ultimo, il romanzo psicologico anche per la tipologia caratteriale del protagonista che ha tutti i sintomi della nevrosi contemporanea con tendenze comportamentali tipiche di una personalità borderline sublimate da “rapimenti” elucubrativi e aggressività, a volte, ideologiche, tipiche del bohémian che sembrerebbe essere uscito dai racconti morbosi propri della scapigliatura. Insomma, il nostro protagonista è il contrario dell’eroe solitario in guerra contro il mondo in nome di valori eterni, imperituri. Il denominatore comune, il fil rouge che lega e rende armonica tutta la storia, oltre alla ricerca degli scomparsi, è la dialettica tra genialità e razionalità, tra logica acrobatica e ragionamento elementare, spesso sostanzia ta nel fraseggio tra il modo di pensare di Marino e quello di amici e compagni di avventura, dal carismatico Inghirami all’amico Gazzarri, antico compagno di liceo, al Nardi, maresciallo dei carabinieri.
A sublimare e a rendere più strutturata e più ricca di sorprese la storia, due personaggi particolari: Nannetti Oreste Fernando, l’anima guida di Marino, un vecchio paziente dell’ospedale psichiatrico di Volterra che aveva raccontato la sua storia, i suoi vagabondaggi, le sue fughe cosmiche (le uniche evasioni possibili per lui dal doppio carcere, il manicomio e la sua malattia) attraverso graffiti incisi con grafia cuneiforme, parole come ferite, sul muro del suo padiglione. Una vicenda, questa, che mi ha ricordato uno dei libri più poetici e innovativi del Novecento: Il vagabondo delle stelle, storia di galera, di sadismo, di camicia di forza e di fughe nell’immobilità attraverso l’invenzione di storie oltre il tempo, il vero e lo spazio, uscito dall’ingegno multiforme di Jack London e pubblicato nel 1915; e, naturalmente, la mia Heimat, la mia città che assume le caratteristiche di un personaggio con un’anima, un’indole, un carattere ben definito. E una bellezza che rende impossibile al narratore sottovalutare tanto è vero che, nonostante la dimensione tropicale, ogni tanto si lascia travolgere dal lirismo nel soffermarsi sui paesaggi e sui colori del microcosmo volterrano.
Insomma, la struttura trittica, la galleria dei personaggi tra il grottesco, lo strampalato e il senso alto del l’avvertimento di una minaccia davvero seria sulla nostra vita di uomini, probabili artefici della apocalissi sempre dentro la buca del suggeritore del nostro dimesso teatrino, la costruzione di un registro linguistico ricchissimo di varianti e di improvvisi cambiamenti rendono questo romanzo una vera novità concettuale, un’opera di grande architettura espressiva. Grazie anche al ritmo be bop con qualche fuga oltre il tempo, si esce dalla lettura del testo come da un concerto destinato a diventare memorabile.