13 Novembre 2024
Art

Concorso per art-legale?

Il Ministero dei beni culturali e le attività culturali ed il turismo ha bandito un concorso ben speciale. Si aspettava da anni, quasi 20.
I musei pubblici languono. I luoghi della cultura soffrono. Carenza di personale. Ed ecco che il MIBACT si risveglia, si accorge che alcune lamentele magari hanno ragion d’essere: ma che davvero gli unici due istituti statali di restauro in Italia, per esempio, usano quasi solo contratti esterni per fare i propri lavori? Forse non è una burla che tutto il loro personale sta andando in pensione? Ma dai, abbiamo bisogno sul serio di assumere? Questa parola così strana, così inconsueta, a-s-s-u-n-z-i-o-n-e, soprattutto per tutti quelli che lavorano nell’ambito dell’arte. Ma cos’è?!
E il ministero lo crea il super-concorso, lo bandisce. Il tanto atteso, osannato, mitico concorso per funzionari.
Conosco perlopiù restauratori, che in graduatoria tra le mie frequentazioni vanno a braccetto con archeologi, storici dell’arte, architetti. Una vita da cosiddetti precari. Professionisti (che un tempo esserlo faceva figo, ora non più perché significa che hai un’odiosa partita IVA) precari (che fa tanto straccione, analogo a “lavoro non dipendente”, incerto, mal pagato, e via di fantasia su questa falsa riga). Ma in generale, se uno non è davvero seriamente disperato, professionista fa anche un po’ ganzo. Siamo strani, noi italiani. Tanto siamo più o meno tutti sulla stessa barca. Ci si arrabatta. Mal comune, mezzo gaudio. Insomma, fesserie del genere per sentirsi meno soli, meno insufficienti a noi stessi, meno impossibilitati a progettare qualsiasi cosa se non provvisti di facoltosi o medio facoltosi genitori/nonni disposti ad elargire, in una sola botta o a più riprese. Un’intera generazione, eccetto casi, s’intende.

Molti dei miei amici nel mondo dell’arte: studiosi eccellenti, dottorati, specializzati, con borse di studio fantastiche, masterizzati, chi parla due, chi tre lingue, docenti a contratto, a progetto, in guardiania in qualche museo. A fare ripetizioni. A vivere affittando le case lasciate dai genitori. A cambiare lavoro. Precari. Non si possono chiamare professionisti dell’arte, no: sono, siamo i saltimbanchi dell’arte. Prendo l’accezione prima del termine, non quella spregiativa: “acrobata, giocoliere che si esibisce in pubblico (un tempo nelle piazze, oggi specialmente nei circhi o in spettacoli di varietà), eseguendo giochi di agilità, di forza, di destrezza” – e aggiungo: di resistenza –

Per non parlare dei restauratori. Mi si accappona la pelle. Loro magari hanno più occasioni di lavoro di quelli citati prima. Ma tra gare d’appalto con ribassi illeciti e pagamenti spesso bloccati per la farraginosa pubblica amministrazione che abbiamo, cosa è mai fare questo lavoro? Due esempi che so per certo: in Germania si viene pagati. Si emette fattura e si riceve un bonifico. Che abitudine deliziosamente bizzarra! In Gran Bretagna si viene pagati ogni due settimane. Ogni-due-stramaledette-settimane se si è dipendenti. Certo, qui non esiste quasi mai il concetto dell’essere dipendenti per gli art-addetti, quindi chi ti paga?! Lo stato? Il comune? Il museo? Vabbè dai, non c’è da scherzare. Meno giochi. Qui si fa sul serio, e la pubblica amministrazione è una cosa seria, mentre noi siamo qui a fingere di avere accumulato titoli, lauree e controlauree piuttosto inutili, di tenere famiglia, figli, di avere a carico mutui o affitti, forse una bolletta? Una macchina? Magari un bollo auto, una spesa, un computer a rate, un contratto del telefono. Una vita. Si finge di essere adulti, semplicemente si vuole ignorare che c’è una generazione di gente che si arrabatta. Si ama ignorare cosa significhi essere professionisti dell’arte, categoria superflua stando ai dati occupazionali inerenti il rapporto tra chi è specializzato in materie legate all’arte e alla cultura in genere, e l’attinenza con l’impiego realmente svolto; e, beffa delle beffe, tutto avviene nel paese che, dalla lista del patrimonio mondiale elaborata dall’Unesco, pare detenga il maggior patrimonio culturale del mondo.

Quindi la partita come si gioca? Appunto con una partita IVA. E lo Stato chiude gli occhi, e per farti giocare al gioco dell’arte impone delle regole semplicemente inaccettabili. Sono così: inaccettabili. Non è un vezzo. Non è una lamentela a vuoto. Sono regole in cui non sono previsti i margini di guadagno sufficienti a vivere decorosamente.
La
meravigliosa Costituzione ha un articolo, il n. 1: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro; ma ha anche il n. 4: la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
No, le condizioni mica vengono tanto promosse. Chi ha una partita IVA è un prigioniero.

Qualche dato alla mano del concorso di cui sopra.
Lo scorso aprile esce lo stralcio del bando, se ne parlava da tempo, per 500 posti da funzionario architetto, archeologo, storico dell’arte, archivista, demoetnoantropologo, bibliotecario, antropologo, restauratore, funzionario della comunicazione e promozione. Straripano le dighe: il mondo fa domanda. Il bando vero esce a fine maggio. Il tempo per prepararsi è irrilevante, totalmente insufficiente, sempre presupponendo e astraendo tutto da tutto. Ci vuole fortuna. Incappare in un periodo in cui non si ha lavoro (surreale anche da pensare!!), o qualcuno che può supportarci, farci la cena, lasciarci liberi per studiare. Un esame a quiz. Dice sia normale. E così, da 20.000 domande si presentano circa 12.000 persone che vengono ridotte in 10 giorni di esami spalmati tra la fine luglio e i primi d’agosto a 2.500. Ovviamente si dice che il Ministero dovesse scremare veloce, e come altro poteva fare? Ma certo, ha senso che lo Stato non consideri nessun titolo e valuti da un quiz a crocette di 45 minuti. Ha molto senso perché se uno ha un lavoro, ed è persona capace e titolata ma non ce la fa a preparare in due mesi un grande esame perché ha anche una famiglia, dei casini, che ne so, è logico che sia falcidiato via. Giusto. Un concorso che non ci sarà di nuovo domani. Ed è altresì logico e più che ovvio studiare diritto pubblico, amministrativo, il codice dei beni culturali, oltre al codice degli appalti, diritto europeo, imparare a comunicare in linguaggio legale in un mese e mezzo, arrancando nel vuoto perché il Ministero non si esprime in modo esaustivo sui temi da studiare delle prove successive, né sulla tempistica, volendo però concludere il tutto entro l’anno in corso. Perché? Per quale motivo i professionisti dell’arte, ‘sta gente appassionata che non trova quasi mai una collocazione inerente i propri studi, deve diventare un burocrate dalla memoria di ferro sui codici? Questo sarà pure il lavoro di un restauratore nella pubblica amministrazione?
È chiaro che sia fondamentale sapere la costituzione e il funzionamento della pubblica amministrazione, ma perché il codice degli appalti? Qualcuno crede davvero che a un restauratore serva? Chissà. Tutti, lavorando con i codici, si avvarranno dei codici. Se no, riempiamo direttamente la pubblica amministrazione di legali. Basteranno loro. E’ veramente troppa e varia questa roba. Lo Stato sembra una creatura senza testa. Quali abilità vengono chieste ai possibili funzionari? Ancora una volta fondamentalmente d’essere saltimbanco, perché quello che si sapeva fare non basta. Non è mai abbastanza. 

Nessuno si lamenta, tutti borbottano; la gente coinvolta nella presunta corsa all’oro è abbastanza disperata, ha incarichi di lavoro, non sa quando imparare queste cose di una pallosità inenarrabile. Spuntano leggi nuove, decreti-legge, aggiornamenti di ieri, di oggi. Tanta roba da capire.
Sconsolati dalla mole e dall’incapacità di ordinare una massa amorfa di dati, informazioni, indicazioni possibili ma non certi su quali siano i temi d’esame, s’attende.
Italia mia bella, noi siamo i professionisti dell’arte, o cos’altro? Ma perché non adatti, perché rimani imbrigliata sempre più nella tua burocrazia e non ti fermi ad osservare che un architetto può e deve sapere delle cose, un archivista altre, un bibliotecario altre ancora? Troppa specificità? Ma certo, siamo specifici, e già nei nostri ambiti, volendo, ci sarebbe un mondo di conoscenze da rispolverare e lustrare per sostenere un buon esame. E se proprio è necessario diventare degli art-legali, perché ad un concorso così importante non dare tempo e spazio giusti? 

È ovvio che uno storico dell’arte e un bibliotecario non svolgeranno le stesse mansioni. Differenziamo le competenze già da adesso? Perché stiamo studiando tutti le stesse cose?
Noi ad esempio troviamo soluzioni alla roba rotta. Capito? Alla roba vecchia. Alla roba bella che sta nei musei e che è sciupata. Davvero, Stato, chi passerà questo tritacarne, andrà a fare solo fogli di prestito nella sua veste di restauratore? Allora è sacrosanto offrire tempo per provare a masticare universi di termini legali a gente che alla parola “legge” associava quasi sempre solo la terza persona di “leggere”!