27 Luglio 2024
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Piero Simon Ostan, Il verde che viene ad aprile, qudulibri 2019, pag.94, € 10,00

Piero Simon Ostan, Portogruaro 1979. Ne ricordo la provenienza perché talora l’Italiano dei suoi versi si alterna al dialetto -un dialetto che sa di casa, di terra natale, di madre-, guidando a quella tessera fondamentale del mosaico, la famiglia, sulla quale si basa la società. Questo non per una chiusura verso l’esterno, bensì per la rivalorizzazione della dimensione privata che oggi rischia di essere travolta, e per un bisogno profondo di non conformarsi e confondersi, in una fuga “da questa terra imbrattata/che non dà più figli”.

La silloge si apre infatti con l’attesa della vita, che viene accompagnata nel suo farsi spazio dentro il grembo materno, fino allo stupore del primo Natale, quando è un nuovo bambinello al centro del presepe. “El presepio no xe sto ano quel pusà/ tal mobile, el mus-cio, la pecorella/capotada, el putel sto ano te son ti”.

La gioia deve essere vissuta nel suo offrirsi, perché niente è duraturo e l’inverno potrebbe sorprenderci all’improvviso. Eppure “basterebbe poco per sentire/una felicità correrci sopra:/saperci in un posto sicuro/ al riparo da questo tempo”. Il riferimento a inverno, vento, gelo, assume tutto il peso del simbolo.

La sicurezza rimane nella “casa nave” che raccoglie i figli “Questa casa nave sei tu, con gli oblò/spalancati abbracci tutto il nostro buio,/questo tetto che mette al riparo, le grondaie/a raccogliere il dolore e poi lasciarlo/scorrere dentro la terra, sei queste porte/finestre che danno alla luce i nostri giorni”.

La terra è sicurezza, vi si legge lo scorrere delle stagioni- come quelle della vita sul nostro corpo-, si vive la bellezza delle notti quando sono buie e silenziose, ma si fa andare lo sguardo anche sul paesaggio sfregiato: “Tu per favore fingi di non vedere l’architettura/delle nuove case-cubi senza tetto./non aggiusteremo mai più i nostri sguardi tinteggiati di grigio/lo so, le montagne sono nascoste lontano/ora solo panorami di calcinacci”. Capaci di cogliere ogni minimo respiro del creato, ci si rallegra al ritorno del nido in costruzione tra le travi del tetto, alla vista degli insetti “gonfi di sole”, quando la primavera si avvicina.

Per l’uomo non è facile trovare facilmente una base stabile: “serve un mare calmo e largo per dire certi giorni/tenersi saldi ad uno sfondo limpido/un’aria liscia a lambire/pensarla ferma la terra, appoggiata”, né tantomeno eludere il dolore che ci contiene tutti “sentiamo dagli abissi la burrasca/ ad attraversarci il vento/ e il mondo come un turbine”. Ma il dolore vuole rispettoso silenzio, perché le parole degli uomini, “quelle scagliate a velocità della luce [ ] allagano e guastano per sempre”. Soprattutto un padre, che ha la responsabilità morale di educatore, deve “pesare e posare le parole”. Rari sono i varchi per oltrepassarle il dolore, ed anche le nostre scelte possono ben poco perché “le nostre vite sono nuvole/prendono la forma che vogliono/colpite dal sole oppure nere,/divise dal lampo”. Tuttavia, almeno ad aprile, torna sempre un verde che commuove, al di sopra di ogni dolore. Importante diventa l’attesa, nella sicurezza che comunque tornerà. “La casa è ripiombata nell’attesa/noi ad aspettare la primavera/il verde che viene solo ad aprile”.

La sicurezza che viene dalla terra è confermata da un nome di famiglia prescelto -identità che rimane per sempre: “La risposta è il tuo nome che è la terra/ dove farai risorgere le cose, quelle che vedrai e per la prima volta/chiamerai per nome”. L’albero è l’elemento della natura su cui si legge il trascorrere delle stagioni: bello sarebbe “farsi albero/di notte/e ascoltare il bosco/[ ] gli alberi solo cantano il vento”. Canto che è poesia.

Ma oggi non è facile fare poesia: “No digo cossa de solito i/se dixe o no i dixe/su quanto costa oggi fare poesia”, eppure la poesia è il filo che può unire due anime. La poesia è riscoperta nelle azioni di ogni giorno, nei nostri contatti umani, nella ripetitività delle nostre abitudini che ci confermano sicurezza e direzione. E ci dicono che esistiamo.

Non c’è bisogno di andare lontano, perché l’illusione della spiaggia si può ricreare ai figli anche su una piazzola di sosta al ritorno dalla ferie, quando si vive la bellezza dello stare insieme ed anche i gesti più semplici diventano magia. Quando possiamo sognare. Stare in mezzo alle cose “sfocandone i contorni”, a osservare come da lenti offuscate, libera l’immaginazione e mitiga le brutture.

Si può allora sfocare anche la casa nuova, tecnologicamente perfetta e sicura, e fare ritorno a quella della madre, tutta piena di spifferi. Ed alla lingua madre. Facendo poesia quando si continuano a valorizzare le proprie radici.

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.