23 Aprile 2024
Movie

“Il sol dell’avvenire” (N. Moretti, ITA 2023)

Non siamo d’accordo, proprio per nulla, con la stroncatura da incomprensione strutturale, che The Guardian ha fatto dell’ultimo Moretti, presentato a Cannes tra quelli in concorso, e rimasto fuori dai premi: “è orribile: confuso, mediocre e metatestuale – una completa perdita di tempo, stridente e svogliato allo stesso tempo“, si legge nella recensione di Peter Bradshaw. Se si eccettua l’ultimo quarto d’ora – nel quale un Moretti nostalgico ripropina e trasmette allo spettatore l’idea moscia e indigeribile del comunismo come utopia ancora irrealizzata in terra, ma degna di essere perseguita e forse destinata a essere raggiunta, con i protagonisti dei suoi film vecchi e recenti tutti uniti come un sol uomo in una grottesca marcia avvolti tra bandiere rosse – e se assumiamo Il sol dell’avvenire piuttosto e innanzitutto come un racconto, quasi un apologo per quadretti pur amalgamati,  esistenziale e individualistico sulla vita trascorsa e sul tempo che rimane a ciascuno, e per questo lo valutiamo (certamente Moretti direbbe che non è operazione approvabile, giacché “tutto si tiene”)… ebbene se assumiamo ciò si tratta di opera tra le migliori del Moretti recente. Bradshaw faticherebbe a capire gli elementi universalistici contenuti nell’autoreferenzialitá morettiana, quella dei tic tradizionali, e infatti il critico inglese richiama tra i capolavori (dai quali Il sol dell’avvenire dista anni luce) La stanza del figlio e Mia madre. Invece, qui è piaciuto il Moretti invecchiato e un po’scavato, che recita con un eloquio di ricercata, quai preoccupante, lentezza la sua visione del cinema e dunque della vita (e della politica), costruisce la sua storia con una serie di sequenze montate separatamente in un tutto coerente e coeso, con una fotografia pastello di Michele d’Attanasio, funzionale per tutte le parti di metacinema.

C’è una base contestuale precisa, infatti ed è meta cinematografica. Si sta girando un film, diretto da Giovanni (Moretti) ambientato in un quartiere di Roma nel 1956. Sono i giorni della rivolta di Budapest. Nella sinossi di questo film nel film, Ennio, un segretario di sezione e redattore de L’Unità (S. Orlando) e altri militanti tra i quali Vera (interpretata da Barbora Bobulova) accolgono un circo itinerante di ungheresi. Sono patrioti e dissidenti e lottano perché nel mondo si sappia cosa sta accadendo a Budapest. Scene di repertorio accompagnano tutta questa ampia parte del film, costruito anche sulle intime sofferenze, o per meglio dure dubbi che si traducono in dolore, di Orlando, dilaniato tra la fedeltá al partito togliattiano e alla linea editoriale filosovietica de L’Unità e la sua progressiva presa di coscienza, anche grazie alle convinzioni di Vera, verso la quale Ennio nutre piû di una simpatia, contraccambiato. Il regista del film prevede un dato finale, incentrato su una scelta di Ennio (il suicidio), scelta che decide di cambiare, rappresentando una sorta di apertura alla “speranza”. Il tutto si svolge mentre la relazione con sua moglie e produttrice Paola (M. Buy) si deteriora irreparabilmente, senza che lui se ne accorga (come non sa che Paola vede regolarmente uno psicoterapeuta), preso dal suo egoismo autocentrato, distratto da se stesso, come nella godibile scena (compiaciuta? Puô darsi, ma non importa), in cui Moretti vuole rivedere e condividere con moglie e figlia un film, insieme sul divano, con la copertina di lana sulle ginocchia. Ma vanamente: ai suoi non interessa quel rito (citazione di Ecce bombo o altro dei primissimi film ma pratica verace e amata): hanno di meglio da fare. La ragazza per esempio sta imbastendo una relazione sentimentale sorprendente. Momenti e temi caratteristici punteggiano l’opera, costituendo al tempo stesso frequenti richiami ai lavori piû lontani di Moretti, che li guarda con affetto ben consapevole del tempo passato, le merendine che non torneranno più stavolta sono davvero inafferrabili, inimmaginabili: le ossessioni estetiche (come le calzature che lasciano scoperta una parte del piede), il calcio col pallone lanciato in alto in solitaria ( ma senza azzardare stop), il giro notturno allegro in monopattino come se fosse la vespa, le vasche in piscina, la musica italiana e straniera che può, ancora, garantire scatti di irrefrenabile ma amara e un po’ forzata e schizofrenica gioia, rimanendo commoventi (un pezzo di Aretha Franklin cantato e ballato da Moretti e Buy in auto, la danza attorno con la musica di Battiato). Il circo (Budavari: come il pallanuotista ungherese terribile della squadra avversaria di Palombella Rossa) fa l’ingresso per la prima volta nel cinema di Moretti, ed è lo spettacolo piû bello del mondo e più utilizzato dai grandi maestri (Chaplin, Bergman, Fellini, Ophuls, citato) come metafora della vita. Ma il metacinema qua è anche un modo per fare pedagogia, per istruire lo spettatore, per ostentare conoscenza: citazioni dettagliate di scene di altri film, anche meno noti, utilizzate dal Moretti regista nel film per spiegare come non si deve girare,  si deve girare questa scena o quella (p.es. da Breve film sull’uccidere di Kieślowski). E poi la dimensione umana e corale delle troupes, i rapporti con i singoli componenti della troupe, quelli ai quali si vuol bene e gli immancabili svogliati e incapaci, che lasciano oggetti desueti o troppo contemporanei creando anacronismi nella scenografia. E ancora i problemi del budget e la concorrenza al cinema rappresentata dalle piattaforme Netflix e altre. Alla fine di tutto, verità eterne, che ciascuno vive come crede e come sa. Il tempo che passa e come lo si affronta. Moretti lo affronta con sofferenza e però disincanto, grazie all’amore per il suo lavoro, che non avvolge nascondendoli nostalgia e rimpianti, preoccupato ma fino a un certo punto per il corpo che invecchia e i legami affettivi che si usurano inesorabilmente. Lo spazio per la speranza è costruito non a caso sulla favola politica. Può darsi che Moretti, con la sua storia personale e politica, ci creda. Questo è il maggior punto di distanza con chi scrive, nell’apprezzamento di molti altri aspetti dell’opera che ci sembrano scindibili dal primo. Poco interessanti i camei dei progressisti Renzo Piano e Corrado Augias.

Giovanni A. Cecconi

Professore di storia romana e di altri insegnamenti di antichistica all'università di Firenze. Da sempre appassionato di cinema, è da molti anni attivo come blogger su alleo.it per recensioni, riflessioni, schede informative, e ricordi di attori e registi. È stato collaboratore di Agenzia Radicale online e di Blog Taormina. Ama il calcio, si occupa di politica e gioca a scacchi, praticati (un tempo lontano) a livello agonistico, col titolo di Maestro FIDE.