27 Luglio 2024
Italic

…al popolo non bastano più le brioche

L’esito – non gradito- del voto britannico per l’uscita dall’Unione Europea ha spinto molti, anche sedicenti progressisti, a mettere in discussione la scelta di sottoporre al suffragio universale materie complesse come i trattati internazionali. A conferma di quella preoccupazione sono stati evidenziati (falsandoli un po’) i dati che vorrebbero, nel risultato del referendum inglese, una prevalenza di votanti poco colti, delle periferie, non giovani, contrapponendoli agli “illuminati” delle aree urbane, a partire dalla cosmopolita Londra. Il tema allora merita una qualche riflessione. “Una testa  un voto”, il cuore delle moderne democrazie, è un’acquisizione piuttosto recente;  ha sostituito il voto per censo, ma, nella Russia dei soviet, il voto degli operai valeva il doppio di quello dei (ricchi) contadini; mentre liberisti come Hayek, in nome della lotta ai conflitti di interesse, anche negli anni ottanta, non hanno mancato di proporre la limitazione del voto ai dipendenti pubblici, quando si tratta di scelte legate alla spesa pubblica. Insomma, su chi e come votare si discute da un po’. Il moderno costituzionalismo ha avuto la luce dopo la devastazione della seconda guerra  mondiale, quando le terribili dittature nazi-fasciste si affermarono, utilizzando come un grimaldello lo Stato di diritto. Le Costituzioni europee postbelliche, con i loro principi e le loro regole,  individuano limiti e vincoli alla possibilità di cambiamenti  solleticati dai mutevoli umori del popolo, salvo percorrere procedure di modifica volutamente complesse e sottoposte a più vagli e verifiche.  La Costituzione italiana, restando all’Europa, non prevede che il popolo si pronunci, tramite referendum, sulla ratifica dei trattati internazionali. La ragione, per la verità, al contrario di quanto affermato da certi tronfi intellettuali nostrani, non sta nel fatto che la materia dei trattati è troppo complessa per gli elettori. La Corte costituzionale, pronunciandosi più volte, ha chiarito che quel divieto ha una ragione ben più prosaica, cioè vuole evitare che la mancata ratifica di un trattato comporti sanzioni per lo Stato. Comunque,  noi non possiamo sottoporre al volere referendario  la ratifica dei trattati internazionali, come la materia tributaria o i diritti della persona; ma il punto è che le nostre Costituzioni nascono prima dell’ attuale e grave crisi della rappresentanza e prima  della rivoluzione digitale; a ben vedere tutte e due fenomeni che trovano alimento in quella globalizzazione che ha travolto equilibri geopolitici, riorganizzato poteri e gerarchie decisionali, aumentato il benessere e le opportunità , ma anche le disuguaglianze, alimentando  paure, sfiducia ed insicurezza.  In questo sfaldamento delle certezze, in questo spaesamento,  è evidente che gli stati democratici, che vivono di regole e consenso, di confini territoriali, soffrono e annaspano.  Siccome sono democrazie rappresentative patiscono anche di più, perché, come ricorda Nadia Urbinati, la democrazia rappresentativa è un tentativo, un approdo provvisorio, è  un ossimoro; perché , se è tale, la democrazia non può essere delegata.  Alla crisi dei sistemi liberaldemocratici si può rispondere con  le tecnocrazie o con le autocrazie (come in Russia) oppure – come io penso- cercando una diversa sintesi fra voto diretto e delega, rafforzando la sovranità popolare ed il rapporto con i territori, che sono i muri portanti di ogni democrazia funzionante. In via di principio –questo il nocciolo del mio ragionamento-  il popolo può sempre ritirare la delega e decidere di decidere direttamente.  Tanto più deve e può farlo oggi con gli strumenti e le conoscenze di cui dispone o può disporre. Non mi pare che l’argomento a contrario possa essere quello della competenza , considerando –per inciso- che, quotidianamente, ascoltiamo parlamentari incapaci probabilmente anche di gestire un chiosco di gelati (e mi scusino i gelatai). La complessità di certe decisioni  chiede  approfondimento e conoscenza, ma  non può essere un limite al potere di scelta degli elettori; invece  deve essere  un impegno per esercitarlo al meglio. Sul terreno della conoscenza e dell’informazione c’è un grande spazio per costruire soluzioni ed inventare modi. Il limite vero, l’unico possibile, anche alla sovranità popolare,  al voto referendario, sono i diritti della persona e di libertà, mentre,  per tutte le altre materie, penso che non possa esserci  limite al diritto del popolo di esprimersi, salvo uno: l’individuazione di soggetti terzi autorevoli, cioè in grado di valutare, fuori dalle passioni e dagli interessi del momento, se e quanto quei pronunciamenti sarebbero peggiori delle decisioni assunte, entro quali confini dovrebbero  muoversi le scelte, se queste metterebbero a repentaglio  diritti inviolabili, a partire dai diritti delle minoranze (cardine irrinunciabile delle nostre democrazie) ovvero se comprometterebbero la tenuta dei bilanci pubblici, la coesione sociale. Questa terzietà innanzitutto dovrebbe garantirla  la Corte Costituzionale e, su certe materie più specialistiche (vedi ad esempio quelle fiscali), dovrebbero garantirla arbitrati autorevoli ed insindacabili (negli Usa alcuni Stati stanno sperimentando qualcosa del  genere). Il punto centrale di questa sfida deve essere appunto  l’obiettività/credibilità  di quegli arbitri, ma ciò è possibile solo svincolandoli dalla politica. Purtroppo, però, né i vecchi, né i nuovo riformatori hanno molto in simpatia l’idea della democrazia diretta (che non è solo il referendum) , ma neppure la pratica della terzietà, considerando quest’ultima  solo un modo per allargare le maggioranze parlamentari alla bisogna, cosicchè, con ampio consenso parlamentare, si può inviare in Corte Costituzionale un uomo di parte per ciascuna forza politica (cioè il contrario di come deve essere un arbitro)  o alla Consob (autorità indipendente) un ex viceministro. In conclusione, non credo che la democrazia  possa fare a meno degli elettori (lasciandogli le solite “brioche”), tuttavia anche il popolo deve giocare dentro regole e con arbitri in campo. E’ vero che dietro la democrazia diretta ci sono sempre in agguato l’irrazionalità e la ghigliottina, (ecco perché servono arbitri terzi); ma è altrettanto pericoloso rispondere alla crisi della rappresentanza –come si sta facendo anche in Italia- , trasformando la minoranza in una maggioranza assoluta (oggi i Governi rappresentano mediamente neanche il 30% del corpo elettorale).  Serve invece  la costruzione di un assetto istituzionale nuovo, che tenga insieme, in equilibri avanzati e variabili, sovranità e rappresentanza,  decisione e confronto, democrazia rappresentativa ed una ben più estesa democrazia diretta, voto e delega.  Per rinvigorire la democrazia, tanto più se rappresentativa, non servono blindature, ma più popolo e territorio, capacità di innovare e di sperimentare  soluzioni innovative.  Come ha insegnato  Etienne Balibar la democrazia vive di un continuo divenire istituzionale, di trasformazione perenne delle regole e di “invenzioni”.