Silvio Soldini
a cura di Marcello Cella e Elena Pinori
Un’anima divisa in due
Ogni volta che mi metto a pensare a un film (e fino ad ora ne ho fatti quattro, di cui solo due sono veramente dei lungometraggi, L’aria serena dell’ovest e questo), devo avere un grosso stimolo, perché fra scriverlo, girarlo, montarlo, e tutto il resto ho bisogno, più o meno, di due anni, perciò devo trovare qualcosa che mi dia nuove energie per tutto questo periodo, perché credo che sarebbe drammatico se, a metà del viaggio, non sapessi più bene perché sto raccontando una storia. L’aria serena dell’ovest era interamente ambientato a Milano e raccontava la storia di quattro personaggi, simili a me e alla gente che avevo intorno, che non si conoscevano ma erano legati da un’agendina che passava dall’uno all’altro per una serie di circostanze strane. Il film voleva essere un piccolo affresco sulla fine degli anni Ottanta: su come eravamo, sulle pulsioni che avevamo, sul desiderio e sull’incapacità di cambiare la propria vita. Dopo questo film avevo voglia di raccontare una storia in cui ci fosse almeno un personaggio lontano da questa realtà. Avevo voglia di avere solo due protagonisti, di cui uno appartenesse ad un’altra cultura, e volevo anche una storia d’amore che mi coinvolgesse emotivamente. Il film è nato prima di tutto da questo desiderio e poi, dopo varie discussioni con Roberto Tiraboschi, lo sceneggiatore, è nata l’idea che la ragazza fosse una rom. Io non volevo fare un film sugli zingari, non so abbastanza di loro e lascio il compito a gente più competente, come Kusturica, che ha fatto Il tempo dei gitani, o Tony Gatliff, un regista francese rom. Infatti, non si entra praticamente mai nel mondo da cui proviene Pabe, ma si aspetta che questo mondo, attraverso di lei, entri nel nostro. Si osserva il suo punto di vista sul nostro mondo e come quest’ultimo la obblighi a cambiare, a diventare diversa da quella che è, perché, altrimenti, non sarebbe accettata. Chiaramente, il suo personaggio conserva le caratteristiche che le appartengono in quanto ragazza rom vissuta nel campo. Tra le culture che noi consideriamo diverse quella dei rom ci è più vicina delle altre, poiché la loro emigrazione non è recente e la nostra convivenza è più lunga. Nonostante ciò, è quella che, forse, conosciamo di meno. Io ho iniziato a documentarmi su di loro appoggiandomi ad una persona dell’Ufficio Nomadi di Milano, parlando con assistenti sociali e con un avvocato, che è diventato più o meno il personaggio del film, che da quarant’anni lavora per il tribunale di Milano difendendo quasi esclusivamente i rom. Parallelamente a questa esperienza ho scritto il film. Non mi ricordo neanche più come era organizzata la prima sceneggiatura. Le ricerche mi hanno dimostrato che i fatti che avevo pensato non potevano accadere realmente, così, lentamente, attraverso piccoli ritocchi, è nata un’altra storia, diversa dagli stereotipi ai quali siamo abituati. Quando dico che la prima sceneggiatura era molto diversa da quella definitiva mi riferisco ai contenuti e non alla forma. Il cinema che mi piace fare e che mi piace vedere è quello che dà peso alle immagini e cerca di raccontare attraverso di loro piuttosto che attraverso mille parole.
I dialoghi aggiungono qualche cosa ma non sono loro a mandare avanti la narrazione. La sceneggiatura era già costruita così ma la scoperta della vera realtà rom mi ha obbligato a trovare delle variazioni narrative, perché quelle che avevo in testa erano impossibili. Dovevo trovare delle soluzioni per far nascere il rapporto fra i due protagonisti e per farli scappare insieme, per organizzare questa specie di rapimento che può esistere anche nella realtà, ma che non si può spiegare facilmente.