27 Luglio 2024
Italic

La (“pasticciata”) Riforma dei trent’anni

“Sono trent’anni  che se ne parla”. Questo l’argomento (il refrain), con cui l’attuale Governo, ma anche quelli precedenti per la verità, difende le cosiddette riforme e, soprattutto, la riforma delle riforme (la  sfida più impegnativa), cioè quella della Costituzione. L’argomento di merito,  in difesa della revisione –a mio parere confusa-  della Costituzione,  proposta dal Governo Renzi,  è la semplificazione istituzionale e legislativa, con il cosiddetto superamento del bicameralismo, che però non è superato, così da rendere più rapide le decisioni e, in combinato disposto con la legge elettorale, più solidi maggioranze e governi. Ho sintetizzato un po’ brutalmente, ma la sostanza mi pare chiara. Il tema quindi non è poi così nuovo: si tratta di recuperare quella “governabilità” che ha avuto il primo vero teorico (ma con ben altro e chiaro disegno istituzionale) in Bettino Craxi, politico degli anni ottanta, discutibile e  controverso, ma portatore di una “visione” per il tempo certamente innovativa. La semplificazione istituzionale e la rapidità delle decisioni (volgarizzato in decisionismo) è stato poi argomento dei governi dell’Ulivo e soprattutto dei Governi Berlusconi. Però, però, però –come afferma lo stesso Presidente del Consiglio Renzi- sono passati trent’anni. Trent’anni fa, avevo i capelli neri e ricci; se avessi coltivato l’idea di farmeli lisci e biondi, decidendo di concretizzarla oggi, avrei il problema che la mia testa è sostanzialmente solo cuoio capelluto. Una distesa di pelle lucida con qualche ciuffo di resistenza pilifera qua e là. Ricci e biondo non ci starebbero. Qui sta il punto. Trent’anni o anche vent’anni fa  avevamo tutt’altro mondo come riferimento. I nostri governi erano espressioni di maggioranze che erano davvero maggioranze nel paese. Oggi il Governo (questo come altri) è sostenuto da forze politiche che, sì e no, rappresentano il ventiquattro, venticinque per cento dei cittadini. I partiti poi sono ectoplasmi, contenitori fragili, magma si sensazioni più che luoghi di progettazione; salvo un po’ il Partito Democratico (che però rappresenta, a mala pena,  il  diciotto per cento dei votanti), i partiti di fatto non esistono, non aggregano, hanno perso la loro peculiarità costituzionale di farsi “ponte” fra popolo ed istituzioni, di organizzare la partecipazione dei cittadini alla vita della Repubblica. Trent’anni fa, inoltre,  non si era ancora manifestata in pieno  la globalizzazione. Quel processo che ha portato grandi vantaggi economico-sociali, ha ridotto la povertà, ha fatto crescere paesi arretrati, ha messo in comunicazione mondi e saperi, culture e persone, contemporaneamente però –anche grazie a politiche ottusamente liberiste che hanno “rotto” ogni argine al potere finanziario- ha sostanzialmente  spostato il potere dai governi, quindi dai popoli, a soggetti spesso opachi e senza alcun consenso o controllo. Il capo di Facebook, con un’operazione di borsa, può muovere più risorse di una Legge di stabilità di un paese come l’Italia. La cosiddetta “ripresa” in Europa dipende dalle decisioni di un gruppo di banchieri, indipendenti dalla politica, capeggiati da Mario Draghi. In un tale contesto, la domanda da porsi, prima di mettere mano alla Costituzione (qui sta il mio dissenso profondo su quella riforma), era come affrontare quei cambiamenti epocali, facendo convivere decisionismo e consenso. Democrazia ed efficienza. Il nodo irrisolto è proprio questo. Certo che una democrazia complessa ha ancora bisogno di delega, ma il delegato deve avere una legittimità ancora più solida. Con il rafforzamento dell’Europa, peraltro, tecnocrati di Bruxelles scrivono regole che noi assumiamo dentro il nostro sistema,  senza poter metterle in discussione,  neanche tramite referendum, tuttavia i nostri costituenti  non potevano aver immaginato che la rappresentatività istituzionale entrasse nell’ attuale cortocircuito. Come ha stigmatizzato efficacemente Cesare Sartori non puoi risolvere il problema del consenso,  trasformando  forzosamente minoranze in maggioranze; cioè quanto accadrà con la nuova legge elettorale  che si intreccia –non a caso- con la riforma costituzionale. Allora? Sarebbe servita (servirebbe) una riflessione ben più allargata e molto meno rivolta all’indietro (i famosi trent’anni). Una vera fase costituente, che, per esempio, integrasse i tradizionali strumenti di governo e di partecipazione con strumenti innovativi (la democrazia digitale), tenendo insieme rapidità delle decisioni con forme  di verifica “in tempo reale” del volere dei cittadini, ampliando le possibilità referendarie,  rafforzando la partecipazione e l’autogoverno dei territori. In un bel  libro di qualche tempo fa,  Aldo Schiavone indica soluzioni interessanti  per tenere  insieme appunto delega e democrazia diretta. Altri studiosi, in giro per il mondo, stanno ragionando  sugli stessi temi, proponendo e sperimentando soluzioni diverse ed innovative. In sintesi, la sostanza del mio ragionamento è che le forze della globalizzazione le puoi governare –o anche contrastare- con più popolo e non con meno popolo.  Di fronte a poteri sovranazionali, che stanno fuori dal gioco democratico, i governi hanno bisogno della forza del popolo e non l’inverso.  Insomma, la nostra Costituzione è certo da modificare, ma ci sarebbe bisogno di tutt’altro approccio. Quando scrivi la legge fondamentale il metodo è sostanza. Le moderne Costituzioni sono il popolo che regola se stesso (e non lo fai a consuntivo).  D’altra parte, trovo non convincente  l’argomento di coloro (e sono numerosi) che voteranno a favore della Riforma costituzionale, purtuttavia sentono il bisogno di precisare che non è il massimo delle soluzioni possibili, che non l’avrebbero voluta così, addirittura che è “pasticciata” (citazione da Massimo Cacciari), comunque è meglio di niente, visto il tempo perso fino ad oggi. Ma si può modificare la Costituzione con la logica del meno peggio? La Costituzione deve essere scritta con la migliore delle grammatiche possibili. Non se ne possono riconoscere i difetti, ma –siccome sono passati trent’anni- allora va bene così. Un’ultima considerazione poi riguarda il refrain delle decidere velocemente. Di sicuro è importante decidere presto, ma è anche importante decidere bene. Conta la rapidità (non sempre), però conta di più la qualità di ciò che viene deciso. Tanto più se sono passati inutilmente trent’anni.