27 Luglio 2024
Italic

Perchè la mamma non è sempre la mamma

In questa settimana, mi hanno particolarmente colpito due episodi apparentemente sconnessi, ma che –in verità- sono connessi da un filo robusto: dai giudici, e anche dai preti,  spesso arrivano salti di civiltà che sanno colmare o evidenziare i vuoti di iniziativa della politica.

Qualche giorno fa, il tribunale dei minori di Milano ha negato maternità e paternità alla cosiddetta “coppia dell’acido”, che ha accumulato mezzo secolo di meritata galera per crimini orribili. Nelle motivazioni della sentenza, c’è un rigoroso ragionamento sull’inadeguatezza dei due genitori a svolgere il loro ruolo, con particolare riferimento alla mamma. In sostanza, i giudici milanesi hanno negato che il legame biologico sia di per sé motivazione soddisfacente  per sancire un legame filiale. Hanno scientificamente documentato che essere la madre biologica non è condizione  necessaria, tanto meno sufficiente, per riconoscere un diritto alla maternità, perché il legame fondamentale e discriminante è fatto di altra “materia”, è fatto di amore, di affetto, empatia, di  disponibilità, di attenzione.  Quella sentenza spazza  via, con rigore ed umanità, tutte le ciance di questo mesi su chi ha diritto di avere o adottare  figli e sul presunto valore in sé della cosiddetta famiglia naturale, dimostrando che l’amore non è un derivato fisiologico e scontato della biologia o del genere, ma un faticoso prodotto del cuore; rende ancora più evidente la rozzezza della campagna sul cosiddetto  fertility day messa in piedi dal Ministero della Sanità nei giorni scorsi.

L’altro segno di civiltà arriva –come capita spesso- da un prelato. L’arcivescovo sudafricano, Desmond Tutu, The Arch, l’amico fraterno di Nelson Mandela, l’inventore per il Sudafrica della definizione di rainbow nation, il rigoroso difensore dei diritti delle minoranze e nemico di tutte le disuguaglianze, ma anche il sacerdote che invitò a non odiare i bianchi, aiutandoli invece a scoprire la loro umanità. Tutu, nei giorni scorsi, ragionando sulla sua condizione di malato di cancro prossimo alla fine (l’ultima “gate”, dice lui) ha rilasciato una toccante e coraggiosa intervista nella quale rivendica il diritto all’eutanasia , il diritto del morente a scegliere una fine dignitosa. Lo ha chiesto con parole che meritano di essere lette ed ascoltate: “…così come ho lottato per la compassione e la giustizia nella vita, allo stesso modo credo che i malati terminali debbano essere trattati con compassione e giustizia davanti alla morte… Per tutta la vita mi sono opposto all’idea della morte assistita. Due anni fa dissi che ci avevo ripensato. Ma sull’eventualità che io potessi farvi ricorso, ero rimasto sul vago. Oggi che sono più vicino al terminal delle partenze, lo affermo con chiarezza: ci sto pensando…I morenti dovrebbero avere il diritto di scegliere come e quando lasciare la Madre Terra…”. Da sempre sono un sostenitore del diritto alla “dolce morte”, che a me piace definire diritto all’autodeterminazione terapeutica; perciò sono totalmente d’accordo con le meravigliose parole del sofferente Desmond Tutu. Pertanto trovo miope e sbagliato che la politica fugga dalla responsabilità di affrontare quel diritto. Mi si risponderà che è prioritario difendere la vita, che ci sono milioni di persone che muoiono di fame, sete e guerra e non si possono permettere il “lusso” di ragionare sull’eutanasia. Apparentemente è un ragionamento “forte”, che tiene, ha un senso, ma, in verità, è un ragionamento fragile e furbo. Un modo per sfuggire ad un argomento delicato e elettoralmente (forse) poco conveniente. Perché  non c’è nessuna contraddizione tra il difendere la qualità del vivere e la qualità del morire. Anzi, le due dignità sono le facce di un’unica dignità. Difendi davvero la vita, se assumi anche il valore di morire in pace. Quando ti batti contro la fame e la guerra non ti batti soltanto per la sopravvivenza, ma anche per una vita che abbia un senso, che scorra e finisca in serenità.

I diritti civili più avanzati non sono un lusso, ma l’approdo verso una società che assume il vivere anche nella sua dimensione immateriale (spirituale?) come valore di civiltà. Perché –come ci ricordava,  un paio di secoli fa, la femminista Rose Schneiderman- “…the worker must have bread, but she must have roses, too”, la lavoratrice deve avere il pane, ma anche le rose.  Ed è su questa sensibilità verso la vita oltre il bisogno materiale che la sinistra ha contribuito a costruire quel po’ di civiltà che abbiamo conquistato.