27 Luglio 2024
Culture Club

La festa della mamma di Cecilia

Ho conosciuto la madre di Cecilia qualche anno fa. Stavo andando a trovare quei due mattacchioni di Bruno e Buffalmacco, e percorrendo una via del borgo antico mi fermai davanti a una cassetta ribaltata che esponeva fazzoletti ricamati a mano, tra una vecchia sedia impagliata e consunta dagli anni e l’uscio socchiuso di una casa, da cui proveniva un tramestio di pentole di rame. Nell’ombra appariva e scompariva, tra il tavolo e la cucina, un’esile figura femminile. Ma l’oscurità dell’interno era così fitta che a rubarmi l’attenzione fu un odore di verdure di campo e asparagi, lo stesso che sentivo in certe passeggiate in campagna da ragazzo. La figura forse avvertì la mia presenza, perché in un momento venne verso di me, fermo sulla soglia. Era la madre di Cecilia.

Non ricordo chi me ne avesse parlato, con una punta di mestizia che non avevo mai compreso. Il marito era partito per il Cantone dei Grigioni come manovale molti anni prima e non era più tornato. Le erano rimaste due figlie: la più piccola, portata via dalla peste; la più grande, guarì dalla peste, ma senza dote rimase con la mamma, timida, solitaria, cagionevole di salute. Lei non aveva mai lasciato quella casa. Non c’era da stare allegri, ma io avevo una gran voglia di attaccare bottone.

Le chiesi quanto costava un centrino macramè: feci per indicarne uno, il primo che mi capitò sotto gli occhi, dalla forma circolare in cui volute e spirali s’inseguivano e si accoppiavano in un gioco di simmetrie concentriche. Naturalmente era il più costoso, il prezzo non lo ricordo più, e in fondo m’interessava poco, almeno non tanto quanto osservare quella donna uscire dalla mia immaginazione e, con una modestia e una fermezza rassegnata come in un’attesa senza tempo, farsi reale. Le chiesi come l’avesse lavorato, elogiando più il disegno che il tessuto; m’improvvisavo fine intenditore. Lei rispose con una cortesia sommessa e distante: il dolore lontano aveva lasciato nei suoi occhi un vuoto così profondo che sembrava appartenere a un’altra epoca della sua vita. Per congedarmi, le dissi che purtroppo ero di passaggio e non avevo con me la somma. Mi rispose che potevo finire di pagarlo un’altra volta. Per me era il pretesto per tornare.

Non dissi niente agli amici. Bruno si era appena fatto una nuova piscinetta a sfioro con scala e spa relax; Buffalmacco stava terminando un’ennesima copia della Danza della Morte per la sigla di coda di una trasmissione tivù: stavolta però gli avevano chiesto di mettere in mano alla morte non la falce bensì un i-pod dotato di cuffie auricolari. Non dissi niente a loro della madre di Cecilia neanche le volte successive che andai a trovarli. Vivono ormai da anni in un residence fuori dal mondo, e sono diventati talmente astratti che non si accorgono della mia strana ilarità; anzi, la attribuiscono al fatto che finalmente sono diventato un “furbo”, com’è vero che, in barba all’ordinanza di restare a casa, riesco ad andare a trovarli senza problemi…

Un giorno, però, trovo l’uscio chiuso, le imposte delle finestre sbarrate. Nessuna cassetta, nessuna sedia. Impossibile che di questi tempi si potesse traslocare; niente mi faceva pensare che fossero passati i monatti a prelevare, dopo tanto tempo, anche lei e la figliola. Bussai più volte per sincerarmi. Nessun rumore in casa, e nelle viuzze strette e dimesse era un silenzio assordante. Un intero quartiere deserto, abbandonato. Come se fossero andati via tutti. Come se neanche io fossi lì. Proseguii pensieroso, lasciandomi alle spalle le mura del borgo sulle quali si addossavano delle casette accecate dal sole. Nella loro villetta bifamiliare, trovai gli amici che si rosolavano in bermuda e rayban a specchio, come due playboy in pensione appena sbarcati da Miami. Ormai è finito il tempo degli scherzi, mi dice Bruno, che lasciò il lavoro con una pensione baby per godersi la sua bella casa costruita con i soldi della moglie. A me non manca niente, il mondo di cui ho bisogno ce l’ho tutto in casa – continuò a sentenziare, tirando su uno spritz all’aperol con una cannuccia –, ah se il mi’ babbo, poverino, fosse qui! Non so ancora in quale succursale cimiteriale l’hanno messo… Online gli ordinai un’urna cineraria tutta cesellata, con manici di ottone, ne sarà fiero; sa che gli voglio tanto bene – concluse soddisfatto, e riprese a schiaffeggiare l’acqua per muovere l’anatra gonfiabile su cui era appollaiato. Buffalmacco approvava con un ghigno sbilenco, mentre addentava un pennello. Anche lui ha risolto bene la situazione del suo vecchio, rimbambito dal parkinson: l’ha lasciato da accudire a suo fratello che non finisce di sacramentare; e con la scusa che ormai le ordinanze vietano ogni contatto, ogni spostamento dentro e fuori il territorio, purtroppo si è dovuto rintanare nel residence.

Fu l’ultima volta che andai da loro. A dire il vero, mesi dopo mi venne ancora l’uzzolo di una visita. Ma quando passai dalla casa della madre di Cecilia, e vidi che la porta era serrata col chiavistello, così come l’avevo lasciata l’ultima volta, come se niente fosse successo e nessuno fosse tornato, neanche per controllare se qualcosa fosse stata dimenticata, allora basta, decisi di rincasare. C’era qualcosa che non mi tornava. Stava crescendo un’amicizia cordiale. Mi offriva un bicchiere del buon vino del contadino, leggero ma allegro, tarallucc, si parlava del più e del meno senza impegno. Riuscii perfino a interloquire una volta con sua figlia, in cui scorgevo la solitudine di chi aveva fatto altri sogni da ragazza. Mi fermavo poco, non volevo farle credere che – da cosa nasce cosa… – potevo essere interessato a una relazione più intima; e comunque mantenevo una rispettosa distanza di sicurezza. Di Cecilia non parlammo mai. Sentivo, però, che non se n’era mai andata; anzi, era proprio lei che teneva in vita la madre; non dico il suo ricordo, ma qualcosa di più fisico, una carezza, un abbraccio, forse quello con cui il suo corpo esanime venne deposto fra le braccia del monatto che la distese, come se stesse dormendo, sul carro traboccante di cadaveri.

Sono sicuro che i cari amici, se non mi vedranno più tornare, non faranno un baffo. Credo, però, che se ancora esistono, se qualcuno li ricorda, è grazie a me: a lungo termine la grulleria è una forma paradossale di saggezza.

Nei miei sogni sono tornato, invece, a girare per il mio vecchio quartiere, che ormai non è più la periferia ai limiti della campagna che ho nei ricordi. Ho rivisto vecchi amici, e conosciuti di nuovi. Pampinea abita con Bartleby, il quale, è vero, non ha mai dovuto lottare contro se stesso per restare a casa e dare l’esempio, ma finalmente ora sa che vale la pena fare lo “scrivano” per una donna di quella tempra, cui nessuno direbbe di no. Con Masetto di Lamporecchio trascorro forse i pomeriggi più gai e spensierati, e quando gli dico che, in città, dove abito hanno chiuso bar e conventi non sta nella pelle per le risate. Crede che sia diventato un burlone, mi dà gran pacche di felicità sulle spalle, e ogni segno che lascia spero di trovarmelo la mattina dopo, perché possa credere che non fu solo un sogno uscire di casa.

Un giorno, tornando a casa, urtai contro una basola sconnessa. Il dolore all’alluce mi fece capire che ero ormai prossimo a svegliarmi. Raccolsi con affanno quante forze mi restavano per scansare, con un percorso tortuoso, eventuali posti di blocco. Un drone aleggiava benevolmente sopra un incrocio dove un tempo scoppiavano le risse per gli ingorghi. Mi passarono davanti un paio di daini. L’ombra velocissima di uno scoiattolo risalì un lampione che si andava spegnendo nel chiarore di un mattino grigio. Da lontano veniva un’eco di autoambulanze. Poi, tornò il silenzio. Non gridi, non pianti, nessuna scena di pietà. Allora capii: non l’avrei più rivista la madre di Cecilia. Mi ero dimenticato di chiederle il suo nome.