13 Ottobre 2024
Poetry

La guerra di Miklós Radnóti

Rejtettelek

 

Rejtettelek sokáig,

mint lassan ért gyümölcsét

levél közt rejti ága,

s mint téli ablak tükrén

a józan jég virága

virulsz ki most eszemben.

S tudom már mit jelent ha

kezed hajadra lebben,

bokád kis billenését

is őrzöm már szivemben,

s bordáid szép ivét is

oly hűvösen csodálom,

mint aki megpihent már

ily lélekző csodákon.

És mégis álmaimban

gyakorta száz karom van

s mint álombéli isten

szorítlak száz karomban.

 

(1942)

 

 

 

Ti ho nascosto

 

Ti ho nascosto a lungo,

come il ramo tra le foglie

il frutto che tarda a maturare,

e ora fiorisci ai miei occhi

come sullo specchio della finestra d’inverno

il fiore giudizioso del ghiaccio.

E so già cosa significa

quando posi la mano sui capelli,

e custodisco già nel cuore

il movimento della caviglia,

e il bell’arco delle costole

che ammiro con distacco,

come chi s’è riposato

su tali meraviglie che respirano.

Eppure nei miei sogni

spesso ho cento braccia

e come un dio in un sogno

ti stringo nelle mie cento braccia.

 

(1942)

 

 

 

Fino a pochi anni fa, di Miklós Radnóti, poeta ungherese (nato a Budapest nel 1909, morto fucilato da connazionali fascisti nel novembre del 1944), in Italia si sapeva ancora poco. Nel 2009 un’edizione delle sue poesie, a cura di Edith Bruck, esce presso Donzelli: Mi capirebbero anche le scimmie. Poesie (1928-1944). Ma non è la prima, anzi, la stessa Bruck, poetessa di origine ungherese, ma in Italia da molti anni, aveva proposto, con Nelo Risi, una selezione di poesie, Ora la morte e un fiore di pazienza e altre poesie, per “L’Europa letteraria”, nel 1964. E pochi anni prima, nel 1958, all’indomani della sanguinosa repressione della rivolta ungherese, avevano visto la luce Poesie scelte, a cura di Laszlo Palinkas, presso Sansoni. Non è la sede questa per fare un regesto delle successive traduzioni e edizioni a stampa che Radnóti ha conosciuto in Italia, e che ora alimentano la sua fortuna in rete stimolando traduzioni di testi inediti in Italia, in attesa – si spera – di una nuova e più ampia edizione delle sua opera in formato cartaceo. Intanto, l’interesse crescente verso la poesia e la vicenda di Radnóti è comprovata dall’attenzione che la sua figura suscita nel momento si tenta di collocarla nella drammatica cornice storica del Novecento. Così, in una recente intervista a Nicola Bultrini, Un uomo che sta per essere ucciso e come ultimo gesto decide di scrivere una poesia, è l’uomo più libero del mondo (http://www.pangea.news/poesia-prigione-nicola-bultrini, 25 settembre 2020), autore di un bel libro che annoda la narrazione critica di un tema che ha attraversato la letteratura del Novecento alla personale esperienza autobiografica (Con Dante in esilio. La poesia e l’arte in tempi di prigionia, pref. di Antonio Monda, Edizioni Ares 2020), Radnóti diventa il testimone di una poesia che fa dell’“esilio”, a prescindere dalle latitudini storiche in cui si realizza, non un semplice approdo fatale, ma un sentiero appartato, perfino nascosto, esposto a ogni pericolo (incluso quella della incomprensione e dell’oblio), una situazione estrema, insomma, paradossalmente non più aggirabile della condizione del poeta (e su questo tema mi piace rimandare anche a un agile e denso saggio di Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. Una difesa della poesia, Fazi, Roma 2006). Una condizione per la quale si sbandiera troppo facilmente il principio dell’“impegno civile” come una sorta di programma politicamente pianificabile, là dove andrebbe sussunto in quella dimensione esistenziale più grande e problematica che, nel corso del secolo (da Camus a Chatwin), fa a meno dei comodi appigli ideologici per affrontare senza scorciatoie le fragilità e le contraddizioni dell’essere umano.

Se è giusto credere che parola chiave della poesia, nel Novecento come in pochi altri secoli non immuni dalla piaga del totalitarismo, ovvero di un Potere subdolo e prevaricante, è la Libertà, agognata e difesa anche a costo della vita, non possiamo non annoverare fra i modelli più alti quello di Radnóti, sia per la sua assoluta, niente affatto scontata, dedizione alla poesia, in tempi tra i più drammatici (come possiamo dedurre dagli estremi biografici) che il suo paese e l’Europa abbiano attraversato, sia per la vigile consapevolezza del valore etico dell’esistenza, immanente al messaggio della poesia. In tal senso ha assunto una valenza emblematica quel ritrovamento di un taccuino di versi nella tasca dell’impermeabile della salma del poeta, riesumata da una fossa comune a distanza di due anni dalla fucilazione del poeta, perché ricevesse degna sepoltura. Non capita di frequente che la realtà superi l’immaginazione, e quando ciò non avviene ne nasce una leggenda. Ma Radnóti, che ha conosciuto in vita qualsiasi tipo di emarginazione e di maltrattamento (dal divieto d’insegnamento per la sua origine ebraica ai lavori forzati in Ungheria e Serbia), insegna ai lettori di oggi, e soprattutto a quanti hanno voglia di apprendere che cosa furono quegli anni, e viverli contro, rivendicando il proprio diritto alla libertà, anche un’altra cosa essenziale: che nei momenti peggiori – quando sale rabbioso l’urlo o è impossibile soffocare il pianto – non si può rinunciare alla vita, e a desiderare di vivere, di amare la vita (sapendo che, leggiamo in Amica, ti meravigli, poesia bellissima, «anche / il seme sottoterra è lieto se scampa all’inverno») e di testimoniare questo amore scrivendo con mezzi di fortuna, nonostante la reclusione in un campo di concentramento (caso forse più unico che raro, osserva la Bruck, nella letteratura della shoah), là dove il male assoluto mira a spogliare i prigionieri di ogni qualità umana.

A rammentare e a cogliere i non pochi indizi del bene («i piccoli battiti del mondo», li definisce il poeta in Cade la pioggia, si prosciuga), sono poesie che, come quella prescelta, non intendono tacere il male, probabilmente ne intuiscono la “banalità”, e tuttavia ne contestano l’ottusa evidenza affermando una parola che non si limita ad aprire oasi impensate (come si può vedere nelle bellissime poesie d’amore alla moglie, in cui si affaccia una figura femminile che, pur lontana, non cessa di farsi presente, come per esempio in Canzone semplice alla moglie, in Ode titubante, in Lettera alla sposa, nelle sembianze di una figura salvifica – «È arrivata adesso, era stata via tutto il giorno, / in mano un grande petalo di papavero / con cui allontana da me la morte» – che ad altre latitudini, e si veda la Clizia di Montale, assiste da un’attesa siderale la follia della guerra), quanto a dimostrare la solidità e la tenuta di una conversazione interiore fra l’intellettuale, perseguitato, braccato, confinato nel lager, e il suo farsi soggetto, io poetico, sospeso entro un perimetro lirico, a tratti irreale, atemporale, in verità inteso a rivendicare la pienezza di una Vita che non ignora la “nuda vita”, sottoposta al quotidiano e ordinario sopruso, ma sa oltrepassarla, fino a scorgere un orizzonte più ampio degno di essere ricordato. È il “vissuto” che conta, l’erlebnis nel quale s’iscrive, esercitandosi come in una quotidiana preghiera, un sentimento della vita che la violenza non può annichilire. A prima vista la cronaca quotidiana non lascia che poche tracce, un doloroso distillato di forti e intense impressioni fugaci, soprattutto nei bellissimi versi, colti giorno dopo giorno, che non negano la storia, tanto meno ne contraffanno l’incombente presenza, tutt’altro («Il mondo volge verso una nuova guerra, / la nuvola vorace divora il tenero azzurro del cielo, / e appena si oscura la tua giovane moglie / ti abbraccia intimorita e singhiozza…», Diario bellico); in verità essa, come uno scenario dal quale è impossibile che la parola prescinda, sedimenta in un intonaco che, similmente a quanto avviene nel procedimento di un affresco, innesca la fissazione del colore, dando spessore e vivacità alle figure in cui s’impastano storia e memoria, presente e passato. Tocca allo spettatore, posto alla giusta “distanza” dalla quale dipende un giudizio equilibrato sui valori per cui vale la pena vivere, e che un giorno consentiranno di sopravvivere, coglierne il movimento di senso, e riconoscere una più profonda ragione di speranza che infonde energia alle parole (come in Marcia forzata, «È pazzo, chi è crollato si rialza e di nuovo si incammina, / e con dolore errante muove ginocchia e caviglia, / eppure si avvia sulla strada come se avesse le ali…»).

Come leggere nei versi sopra riportati, nelle loro immagini di sospeso e generoso lirismo (i vetri delle finestre gelate, un fiore di ghiaccio, i sogni agitati di chi tenta di abbracciare), tracce delle drammatiche condizioni in cui Miklós Radnóti viveva? Non è un invito all’evasione, semmai a tener duro. Il poeta è un Orfeo che non ha avuto bisogno di scendere negli “inferi” alla ricerca della sua Euridice, perché ha incontrato l’inferno sulla terra, e qui attende di tornare alla sua donna (la quale, per fortuna nostra e sua, è riuscita a scampare). Non è inutile affrontare la bestialità degli aguzzini con dei versi che provano a evocare, non tanto nel lamento quanto nella grazia, ora malinconica ora ironica, e nella riflessione pacata ma serrata, il ricordo di un’ora remota, e cancellabile, pronta a colmarsi di un senso di salvezza che niente può oltraggiare, e in cui la poesia ci esorta a credere.

 

Salvatore Ritrovato

Salvatore Ritrovato (1967), poeta, critico, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Urbino. Fra le sue ultime pubblicazioni, la nuova edizione di La differenza della poesia (Puntoacapo, 2017), e la breve raccolta di versi, Cercando l’isola (Fiorina edizioni, 2017).