20 Aprile 2024
Culture Club

Di ananke virtù, anzi Victor… Hugo

 L’albero deforme

Pirotecnico, vulcanico, impressionante – a tratti – per la potenza della scrittura, I miserabili (Introduzione e traduzione di Mario Picchi, Tomo Primo, Tomo Secondo, Tomo Terzo, Einaudi, Torino, 1983) di Victor Hugo non è affatto un romanzo sui «miserabili» – come vorrebbe il titolo: ma è un romanzo sulla «miseria». «Accade della miseria come di ogni cosa. Finisce per diventar possibile. Finisce per prendere una forma e organizzarsi. Si vegeta, ossia ci si sviluppa in un certo modo stentato, ma sufficiente alla vita». La «miseria» – dalla quale, appunto, insieme all’«arte di arrangiarsi» nasce per Platone Eros – fa sì che Marius «Era uscito dal peggio; la strettoia gli si allargava un po’ davanti. A forza di fatica, di coraggio, di perseveranza e di volontà, era riuscito a ricavare dal suo lavoro settecento franchi all’anno. Aveva imparato il tedesco e l’inglese; grazie a Courfeyrac che l’aveva messo in relazione col suo amico libraio, Marius faceva nell’editoria la modesta parte dell’attore secondario. Compilava prospetti, traduceva giornali, annotava edizioni, redigeva biografie, ecc. Guadagnava netto, in media, settecento franchi all’anno. E ci viveva.  Non male. Come? Lo diremo subito». Questo legame tra Eros e Psiche (soprattutto quella di Jean Valjean) attraverso il «filtro» di Poros e Penia viene – nel Simposio platonico – esplicitato con queste parole; Socrate dice: «E io domandai: “E chi è suo padre? E chi è sua madre?” “E’ una cosa un po’ lunga da spiegare, pure te la dirò”. “Quando nacque Afrodite, gli dèi tennero banchetto, e fra gli altri c’era Poros (l’Espediente) , figlio di Metis (la Perspicacia). Dopo che ebbero finito il banchetto, venne Penia (la Povertà) a mendicare, poiché c’era stata una grande festa, e se ne stava vicino alla porta. Successe che Poros, ubriaco di nettare, dato che il vino non c’era ancora, entrato nel giardino di Zeus, appesantito com’era, fu colto dal sonno. Penia, allora, per la mancanza in cui si trovava i tutto ciò che ha Poros, escogitando di avere un figlio da Poros, giacque con lui e così nacque Eros». Ma l’«autobiografia di Jean Valjean» (perché nessun altra cosa è questo ciclopico romanzo) è quella di una Psiche che viene sempre insidiata da Eros. La «miseria»e l’«espediente» non fanno nascere solamente l’amore in Marius per Euphrasie (detta: Cosette) – ma anche lo stesso «cosmo» nel quale vivono questi Miserabili (mere ipostatizzazioni della «miseria») e i sentimenti «paterni» di Jean Valjean nei riguardi di Cosette – con tutte le implicazioni del caso … Ma ogni storia ha un inizio. E questo inizio è direttamente – lungo l’asse del vescovo di Digne – l’analisi della psiche di Jean Valjean. Se il vescovo di Digne è troppo santo per essere vero, Valjean è davvero troppo «sfigato» per avere colpe; per essere buono o cattivo; per avere sfumature – per essere un personaggio «in-credibile» all’interno di una storia (che è la «storia» della sua vita) la quale alla fine (e anche: passo per passo) si «raccorda» col «romanzo» (che è il «romanzo» che, effettivamente, Victor Hugo ha scritto e sta scrivendo). Valjean riprende a camminare. Si «è fatto» cinque anni per furto con scasso e quattordici anni per aver tentato di evadere quattro volte … «Adesso finalmente è fuori/libero come una bandiera al vento/ agli amici di un tempo/manderà certamente una cartolina/ magari da Pisa, Torino, Milano» dicevaFrancesco De Gregori nella canzone Canta canta. Si trova in un campo: non c’era altro nel campo e nella collina all’infuori di un «albero deforme». Simbolo e segno (come il furto del «pane» per il quale è stato arrestato, e come il furto delle «mele» per il quale sarà arrestato papà Champathieu poco – si fa per dire – dopo) della «condizione umana» (del suo stesso «stare al mondo»)  di un uomo, questo «albero deforme» segna lo «spartiacque» tra un primo «stato» di «morte» (quantomeno di «morte civile») che è la condizione di galeotto, l’ingresso nella «vita» (e dunque nella «storia») con la visita al santissimo vescovo di Digne e la successiva totale evoluzione del romanzo fino allo stato (il terzo) finale che sarà di nuovo quello di «morte» (attraverso una «confessione», a cuore aperto, a Marius), quantomeno di «morte» della «storia» raccontata e di (nuova) «nascita» del «romanzo» (quando la realtà «si ricollega» alla realtà; il primo «stato» di Valjean si collega al terzo, allora non c’è più «narrazione», fiction, «storia»: esiste solo «il romanzo» di un uomo (e della «miseria» di un uomo) che si fa narratore di sé stesso e dunque «romanziere» e dunque Victor Hugo e dunque Dio …

 

Origine dell’Adorazione Perpetua

Un po’ di date. I miserabili venne pubblicato nel 1862 ma la «storia» ha inizio con la «liberazione» di Jean Valjean nell’ottobre del 1815. Il 16 febbraio del 1833 si sposano, finalmente: Marius e Cosette. Nel mezzo ci sta anche il 5 giugno del 1832 e quella che Hugo preferisce chiamare l’«insurrezione» repubblicana e non la «sommossa» di Parigi: il tentativo fallito di rovesciare la Monarchia di Luglio. La location di apertura è Digne (parte sud-orientale della Francia), poi ci si sposta a Montfemeil nell’ Île-de-France, subito dopo a Montreuil-sur-Mer nel dipartimento del Passo di Calais e infine a Parigi. Chiaramente ci sono altri passaggi di date e luoghi minori ma fondamentalmente l’«epopea» di Jean Valjean si svolge in questi tempi e lungo la rotta di questi spazi. Chi è Jean Valjean? Rispondere q questa domanda equivale a poter dire di aver letto il romanzo. Intanto per tutta la «narrazione» (che, come detto, corrisponde alla «sua vita») Valjean cambia diversi nomi: dapprima è un «viandante», poi è uno «straniero», ancora dopo è «papà Madeleine», poi è «Ultime Fauchevelent», poi è «l’altro Fauvent» (solo per le suore del «Convento delle Bernardine dell’Adorazione Perpetua»), ancora in seguito è (su suggerimento di Couferyac e per i «pochi» che lo vedono «In un viale deserto del Luxembourg») «monsieur Leblanc», quindi (solo per il «cattivone» Thérnardier) diventa il «Signore benefico della Chiesa Saint-Jacques-du-Haut-pas», indi si trasforma (solo per Cosette) in «monsieur Jean» per finire ad essere solo «un passante» (sempre: per Cosette). Ma cosa si intende con «storia»? Che cosa si intende con «romanzo»? Cosa si intende, infine: con la «vita» e la «morte» di Jean Valjean? La sua «storia» è presto detta: Valjean è un «potatore» di Favellores: per fame ruba un «pane», viene preso e incarcerato, tenta di fuggire quattro volte, viene condannato ed esce di prigione – fin qui siamo nella «morte» (l’ex galeotto ha una «specie» di vita tutta determinata dalle «circostanze»). L’altra «morte» avviene quando, dopo aver «sistemato» Cosette con Marius (lungo l’asse di una profonda crisi di «coscienza»), Jean Valjean «confessa» tutto (ma il «dire» della «confessione», riportando la sua realtà alla sua realtà – al di là di tutte le «trasformazioni » di cui si è detto -, non è più «storia»: è già «romanzo»: Valjean diventa, di nuovo, un uomo che «indossa i vecchi panni da operaio» e restituisce sé stesso a sé stesso divenendo il «potatore» di partenza – ma in partenza c’era la «morte» …). Infine il terzo (che poi è il secondo) stadio è la «vita» che equivale alla somma di tutte le «trasformazioni» e di tutte le «avventure» che egli vive davvero. Per quanto riguarda il «romanzo»: esso inizia quando Jean Valjean «confessa» tutto a Marius e «termina» con la sua morte. La «storia» (attraverso numerose «agnizioni» e «ricapitolazioni» – anche dal punto di vista non del solo Valjean) è presto detta: quest’uomo vaga per alcuni borghi della Francia, fa fortuna attraverso un invenzione e sotto falso nome, conosce una certa Fantine (la madre di Cosette) che aveva  «lasciato» la propria figlia dai coniugi Thérnadier, recupera la bambina, si auto-incolpa durante un processo, viene incarcerato di nuovo dall’ «ottuso» Javert, fugge rocambolescamente, riappare in un convento nelle vesti di vivo/morto (si fa seppellire vivo, infatti, per poter «uscire» e non «entrare» nel convento) «giardiniere», va a Parigi ancora sotto falso nome, vede crescere Cosette, nota Marius che piano piano si innamora di Cosette, entra nella «insurrezione», entra nelle «fogne», salva Marius … Il «romanzo» sta alla «storia» come la «vita di Valjean» sta a «quello che ne scrive Hugo». Quale è l’Origine dell’Adorazione Perpetua? «Quell’esistenza claustrale così austera e cupa, di cui abbiamo tratteggiato alcuni lineamenti, non è la vita perché non è la libertà: non è la tomba perché non è la pienezza: è lo strano luogo dal quale si scorge, come dalla cresta d’un alta montagna, da una parte l’abisso in cui siamo, dall’altra l’abisso in cui saremo: è una frontiera stretta e nebbiosa che divide due mondi, illuminata e oscurata nello stesso tempo da ambedue,  dove il raggio affievolito della vita si mischia all’incerto raggio della morte: è la penombra della tomba»… Eppure anche questa «penombra» non basta a Jean Valjean: c’è un «filo» (Fabrizio De Andrè nella canzone Franziska «dice» la stessa cosa: «Filo filo del mio cuore/ che dagli occhi porti al mare/ c’è una lacrima nascosta/che nessuno mi sa disegnare») che parte dal «cuore» e che per «onestà» lo stesso Valjean/Hugo chiama«coscienza»  che lo tiene desto

 

Lo sradicamento dell’esistenza

Attraverso l’ermeneutica il «filo» dell’ «esistenza» di Valjean «si snoda» lungo tre stadi o tappe. Morte-vita-morte e … Alla fine? L’ermeneutica (il «dire») si «imbatte» nelle «dure repliche» (come diceva Hegel) della realtà. Quale è il «motivo» della «confessione» finale? Il «filo» della sua«coscienza» che lo conduce a un «assoluta» onestà. Che vita è, in fondo, la sua? Una vita sconclusionata: Valjean è vergine, è povero ma è ricco, è padre ma non è padre, è libero ma è in catene: esattamente come la vita del «Convento dell’Adorazione Perpetua», come quella della prigione, come quella della morte (di «Madre Crocifixion») che poi diventa un «seppellimento prematuro» (1814: Edgar Allan Poe), come quella della fogna, come quella della stessa «miseria» (morale, intellettuale, economica e sociale), come quella dell’ «insurrezione» (la politica del «dopo»-Restaurazione viene descritta così da Hugo: «Si fanno affari, si gioca in Borsa, si guadagna denaro, e si è spilorci. Si cura e si vernicia la superficie; si è tutti azzimati, lavati, insaponati, raschiati, strofinati, spazzolati, lindi di fuori, irreprensibili, levigati come un ciottolo, discreti, pulitini e, allo stesso tempo, corpo di Bacco!, con letamai e cloache in fondo alla coscienza da far tirare indietro una vaccara che si pulisce il naso con le dita. Io concedo a quest’ epoca un motto: Pulizia sporca») … Il punto più trash della «miseria» non è la discesa nelle «fogne» (per salvare l’«insurrezione» e Marius oltre che per difendersi da Javert e Thérnadier), piuttosto sta in questa citazione tratta dal libro: «Marius quasi si rimproverò l’ossessione delle fantasticherie e della passione che fino a quel giorno gli avevano impedito di dare un’occhiata ai suoi vicini. Aver pagato la loro pigione era stato un impulso involontario, tutti avrebbero avuto tale impulso; ma lui, Marius, avrebbe dovuto fare di più. Come! Soltanto un muro lo divideva da quegli esseri abbandonati, che vivevano brancolando nella notte, fuori del resto dei vivi, stava gomito a gomito con loro, era in qualche maniera proprio lui, l’ultimo anello della catena del genere umano che essi toccavano, li udiva vivere o piuttosto rantolare accanto a lui, e non vi badava! Tutti i giorni, tutti i momenti, attraverso il muro li sentiva camminare, andare, venire, parlare, e non vi prestava orecchio! In quelle parole c’erano gemiti, e lui non li ascoltava neppure! Il suo pensiero era altrove, dietro ai sogni, a splendori impossibili, a amori campati in aria, a pazzie; e intanto creature umane, suoi fratelli in Gesù Cristo, suoi fratelli nel popolo,  agonizzavano vicino a lui! Agonizzavano inutilmente! Anzi, lui faceva parte della loro sventura, e l’aggravava. Infatti, se avessero avuto un altro vicino, un vicino meno chimerico e più attento, un uomo comune e caritatevole, evidentemente la loro indigenza sarebbe stata notata, i loro segnali di pericoli sarebbero stati scorti, e forse già da tempo sarebbero stati raccolti e salvati! Certamente sembrano molto depravati, molto corrotti, molto spregevoli, perfino molto odiosi, ma sono rari coloro che sono caduti senza degradarsi; d’altronde c’è un punto in cui gli sventurati e gli infami si uniscono e si confondono in una sola parola, parola fatale, i miserabili; di chi è la colpa? E poi, non è forse quando la caduta è più profonda che la carità dev’essere più grande? ». Se questo è il «punto-zero» (in questa «storia» che è e rimane una «storia» di «profonda miseria»), lo sradicamento dell’esistenza (Karl Marx avrebbe detto «l’alienazione») avviene quando Jean Valjean e Cosette (che intanto egli ha «recuperato» dai Thérnadier) si trovano nella «stamberga Gorbeau» (al numero «50-52» all’ «angolo della via des Vignes-Saint-Marcel» a Parigi) nella quale essi erano «due esistenze sradicate, diverse per età, simili per dolore». Ananke! E’ il «destino» di Jean Valjean questo: egli è colui che dice a Marius: «Io sono fuori dalla vita, signore». Quando la sua «storia» è stata «raccontata» egli era «dentro» la vita (ma era tutta una «finzione» …); nel momento stesso in cui egli è un ex galeotto che arriva a Digne egli è «fuori» dalla vita così come dopo aver «confessato» tutto a Marius. «- In famiglia! No. Non sono di nessuna famiglia, io. Non sono della vostra. Non sono di quella degli uomini. Nelle case dove si vive insieme io sono di troppo. Le famiglie esistono, ma non sono per me. Io sono il disgraziato, io sono fuori». Ma esiste sempre questo «filo»: si tratta allora di «fare» quattro cose. 1) rincorrere il «filo» della «narrazione». 2) Cercare il «filo» della «storia». 3) Trovare il «filo» della propria identità e 4) non perdere mai il «filo» della propria coscienza/discorso (discorso che, costantemente: Jean Valjean fa con sé stesso). Il «filo» – ecco il punto! – lo conduce dritto alla propria «miseria» che, da fatto personale e privato – come direbbe Søren Kierkegaard – di un «singolo» essere umano: «diventa» adesso metafisica. Ogni cosa è miseria; ogni uomo è «miserabile», ogni paesaggio è spettrale …

 

Guai a me!

«Biasimiamo la Chiesa quando è satura d’intrigo, disprezziamo lo spirituale severo col temporale, ma onoriamo dovunque l’uomo pensoso. C’inchiniamo a chi si inginocchia. Una fede; ecco quello ch’è necessario all’uomo. Guai a chi non crede a nulla». Jean Valjean ha una «fede» – gliela ha «data» il vescovo di Digne: e si «macera» nella sua coscienza, quasi volesse ripercorrere interamente tutto l’itinerario speculativo afferente alla questione del bene e del male. Alla fine – è vero! – in questo romanzo «magistrale» sono presenti molti personaggi memorabili e molte «scene» che rimangono nella memoria. Una su tutte. «Una porta aperta accanto alla topaia di Cosette lasciava scorgere una camera buia piuttosto grande. Il forestiero vi entrò. In fondo, attraverso una porta vetrata, si vedevano due lettini gemelli candidissimi. Erano quelli di Azelma e di Eponime. Dietro quei letti spariva a metà una culla di vimini senza tendine dove dormiva il bambinetto che aveva strillato per tutta la sera. Il forestiero suppose che quella camera comunicasse con quella dei coniugi Thénardier. Stava per andarsene quando il suo sguardo cadde sul caminetto; uno di quei grandi caminetti di locanda dove c’è sempre un fuoco tanto piccolo, quando c’è fuoco, e che sono tanto freddi da vedere. In quello non c‘era fuoco, non c’era nemmeno cenere; quello che c’era tuttavia attrasse l’attenzione del viaggiatore. Erano due scarpine infantili di forma civettuola e di grandezza diversa;  il viaggiatore si ricordò la consuetudine graziosa e immemorabile dei bambini che posano le scarpe nel camino il giorno di Natale per aspettare al buio qualche dono scintillante della fata buona. Eponime e Azelma avevano badato bene di non mancare e avevano messo ciascuna una delle loro scarpe nel camino. Il viaggiatore si chinò. La fata, ossia la madre, aveva già fatto la sua visita e si vedeva splendere in ciascuna scarpa una moneta da dieci soldi nuova nuova. L’uomo si stava rialzando e stava per andarsene, quando vide, in fondo, in disparte , nell’angolo più oscuro del focolare, un altro oggetto. Guardò e riconobbe uno zoccolo, un orribile zoccolo del legno più grossolano mezzo rotto, e tutto coperto di cenere e di fango seccato. Era lo zoccolo di Cosette. Cosette, con la commovente fiducia dei bambini che può essere sempre delusa senza mai scoraggiarsi, aveva messo anche lei lo zoccolo nel camino. E’ una cosa sublime e dolce la speranza in un bambino che ha conosciuto soltanto la disperazione. Nello zoccolo non c’era nulla. Il forestiero si frugò nel panciotto, si chinò e mise nello zoccolo di Cosette un luigi d’oro. Poi tornò in camera sua in punta di piedi»:  qui Victor Hugo riesce a scatenare un emozione «vera» nel lettore. Ma, del resto, «punti di debolezza» nel romanzo ce ne sono … Primo fra tutti il «motivo» – fastidiosamente «insistito» – della «compressione» soprattutto di personaggi ma anche di luoghi e situazioni che «ritornano» nel corso del romanzo abbastanza «casualmente» in altri luoghi e situazioni … Ma in realtà: «a causa» di una «compressione» voluta da Hugo, che non ha nulla di «causale» e che non solo «appare» abbastanza forzata ma anche, in alcuni punti: «per la sua incredibilità» anche un po’ «ridicola» … Il tema della «miseria», si diceva … «Da cinque anni Marius viveva nella povertà, nelle privazioni, perfino nell’angustia, ma si accorse di non avere mai conosciuto la vera miseria» … La «vera miseria» è quella di una vita (di un «romanzo») sempre «tra» e mai da nessuna parte … Non è il «progresso» (come spesso hanno detto i critici del romanzo) il vero protagonista della narrazione: è il «grado zero» delle cose del mondo. Una «miseria metafisica» che investe il lettore come «caratteristica» di un secolo (il XIX) che avrà nell’avvento della «questione sociale» (insieme alla nascita delle «nazioni moderne») la sua cifra «fondamentale» … Cifra che è anche il numero 24601, che il titolo della «Parte seconda» del «Libro Secondo» fa recitare: «Il numero 24601 diventa il numero 9430»: si tratta del «vero» nome di Jean Valjean (il «nome» di un forzato) che, dopo un ulteriore arresto: diventa il «nome» di un altro forzato … Conclude Victor Hugo: i carcerati «Vivevano senza più nome, designati soltanto da numeri e in certo modo diventati numeri, abbassando gli occhi, abbassando la voce, coi capelli tagliati, sotto il bastone, nella vergogna». Questo 24601 ne ha fatta di strada … Ma rimanendo sempre «fuori» dalla strada, come un «viandante», come uno «straniero», come un «forestiero», come un «passante» … Come un «anomalia» …

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.