27 Luglio 2024
Sun

John Le Carré, L’ultimo segreto, Mondadori 2022, pp. 180

Dire di John le Carré col suo ultimo romanzo breve – Silveriew tradotto rocambolescamente come L’ultimo segreto  – rischia di essere dispersivo. Il testo è breve. Giusto una cinquantina di cartelle word o, siccome lui scriveva sempre a mano, un brogliaccio di almeno 300 fogli, incolonnati a destra, con una vita ristretta al centro pagina.
L’ultimo romanzo colpirà i lettori di Le Carré perché pare, finalmente, i filoarabi e terzomondisti che si mescolano al Service, spy on the Service, salvano la pellaccia. Non si vedeva una cosa simile da tempo immemorabile.

Il baby pensionato. Cornwell fino a 34 anni, almeno, è rimasto nella grande casa del Foreign Office riuscendo a produrre tre quattro romanzi di valore nel frattempo. Nascere in Inghilterra oggi come allora e avere trent’anni significa per forza produrre una famiglia e un contributo allo stato. Sono cose da fare uscire matti. Per questo Cornwell si prepensiona, per così dire, continuando a parlare della sua vecchia appartenenza per il resto della vita in una ventina di romanzi. Il resto è letteratura in gloria delle tradizioni patrie. Anche quando le si critica.

L’antiamericano. Quello  che non viene digerito dal sistema, al massimo, è la sua gelosia per i cugini maggiori americani e le loro agenzie. In “Absolute friends” e ancora prima in “Russia House” quindi datando dal crollo del muro di Berlino, Cornwell/le Carré ha il complesso dell’inferiore ammiratore per chi tiene le leve in mano, punto.

Il filotedesco. Eppure la sua statura interiore rimane quella. Uno dei più bei romanzi che andrebbe riscoperto è “Una piccola città in Germania” a segno dell’appartenenza di le Carré al continente europeo. Il resto, di nuovo, è letteratura col suo amore per Mann, Theodor Storm e compagnia.

Il filoarabo. Le sue aperture congolesi, panarabe sono il prodotto di una mente stanca di parlare inglese. Il carattere parvenu di un uomo che alla televisione inglese faceva lo spocchioso complessato mentre quando appariva per interviste e programmi vari sulle televisioni francesi e tedesche era molto più disinvolto. Anche qui, segno meno. Eppure i romanzi rimarranno.

Il lirico. Dal fondo di melanconia si stacca  un canto tenue e introspettivo. Nell’ultimo romanzo Edward/Florian, ex agente polacco – e qui guardare bene l’orizzonte attuale di apertura strategica americana in Polonia – si trova a rincorrere il figlio di un amico d’infanzia, Julian e ad appioppargli i suoi segreti o meglio sua moglie e sua figlia. Ma non si può dire altro. Meglio leggere. Certo è che le Carré aveva finalmente ritrovato la sua dimensione più congeniale di romanzo breve entro le 200 pagine come con le sue opere d’esordio – compresa “La spia che venne dal freddo”. Peccato averlo perso. Creava cortocircuiti sapienti tra vecchi emissari e nuove linfe ma qui in “Silverview” il lavoro è venuto molto meglio rispetto al penultimo romanzo – troppo denso, ideologizzato – “L’agente corre sul campo”.

E allora:
“Io ormai appartengo al passato, Julian. Non posso fare alcun male. Sappia che, se capiterà l’occasione, lei è libero di discutere di me. Ci sono persone che non dobbiamo assolutamente tradire, a nessun costo. Io non rientro in quella categoria. Non posso pretendere niente da lei. Volevo bene a suo padre. Ora mi dia la mano. Così. Quando torneremo al parcheggio le rivolgerò  solo un addio formale.”
Prima la mano forte. Poi un abbraccio impulsivo, poi basta prima che qualcuno ci veda.”

Due note per concludere. Silverview nel titolo è località geografica. Come Skyfall o, per restare alla letteratura della vita, Aci Trezza e Aci Castello.
Chiudendo il libretto si capisce finalmente che tutto questo scrivere di Cornwell/le Carré era veramente un elogio del sistema. Pur standosene fuori, in prepensionamento.