27 Aprile 2024
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Storia dei debiti degli stati

Il debito pubblico, come lo conosciamo oggi, ovvero il modo in cui lo Stato finanzia il disavanzo del suo bilancio, nacque in Italia ai tempi di Giotto e Cimabue. Era quello delle “repubbliche marinare”, ed ebbe effetti limitati. Ma la scoperta venne subito imitata. Infatti, arrivò a ruota la bancarotta di Edoardo III, re di Inghilterra, nel 1339. Aveva chiesto un credito ai banchieri fiorentini Bardi e Peruzzi per poter invadere la Francia e dare così inizio alla Guerra dei Cent’Anni. 350 banchieri fiorentini falliti, per colpa della follia bellica di Edoardo e poi, nel 1347, sbarcò da una nave genovese un topo che portò la peste. Il resto è noto.

I Genovesi, d’altro canto, finanziarono il Re di Francia Filippo VI fornendogli una squadra di galee, al comando di Ottone Doria, Pietro Barbavera e Carlo Grimaldi che, dopo aver sconfitto gli inglesi sul mare, il 5 Ottobre 1338, razziarono Southampton, Portsmouth per poi, risalendo tutto il Solent, catturare tutte le navi britanniche ormeggiate a Plymouth. Esattamente sei secoli dopo, nel 1941, uno dei librettisti di Puccini, Giovacchino Forzano, dirigerà un film sul fallimento dei Bardi e dei Peruzzi a causa dell’insolvenza inglese, intitolato “Il re d’Inghilterra non paga”, con evidenti elementi propagandistici. Non del tutto privi di fondamento però: il servizio (ovvero il costo) del debito creato per finanziare, a Londra, la II guerra mondiale si fece sentire fino agli anni ’70, quando la Gran Bretagna chiese un prestito al Fondo Monetario.

I Bardi, peraltro, credevano ancora all’Inghilterra, malgrado tutto. Ma ebbero un’altra comunicazione di impagato da Riccardo II, nel 1391. (Quando il debito è grande il problema è della banca, non più tuo). Dopo altri insoluti, Londra fu tenuta fuori dai circuiti finanziari per quasi due secoli, mentre i Re inglesi ricominciavano a vedere qualche soldo per mezzo della pirateria, esercitata finalmente su larga scala.

Dopo questi fattacci economici, arrivarono le bancarotte spagnole (1557, 1575, 1596, 1607, 1627 e 1647) poi francesi, in totale di otto, dal 1557 al 1788, quella portoghese, nel 1560, prussiana nel 1683, statunitense, nel 1779, 1790 e 1798. Le colonie costano troppo e la materia prima che se ne estrae, come aveva scoperto Adam Smith, ha valore quando è lavorata, non prima. E il lusso è spesa improduttiva. Per gli agricoltori poi, il prezzo che ripaga il debito pregresso è funzione del clima e del ciclo dei prezzi, niente di prevedibile. Nel 1688 la “glorious revolution” britannica porta al potere sul trono di Londra Guglielmo III d’Orange, e da un momento all’altro il debito pubblico viene azzerato. Ecco l’unico modo serio di risolvere il debito pubblico, ma occorre stare attenti alle reazioni dei Paesi creditori. Il problema allora era soprattutto militare: allontanare dalle coste inglesi le navi dei creditori.

Poi arriva l’infausta (economicamente) Rivoluzione Francese, foriera di una immensa spesa pubblica, ben maggiore di quella di qualsiasi Re Sole, con il primo default statale francese del 1812. Crepano di debito anche i satelliti napoleonici: Austria (1802, 1805 e 1811), Danimarca, Svezia, Olanda e Assia (1814) che vivono, come il pisano e còrso Napoleone, sulla rapina dei loro vicini.

Qualche anno prima, peraltro, la Banca d’Inghilterra, nel 1797, aveva rifiutato di convertire la sterlina in oro. La cosa finì lì, nessun suddito di Sua Maestà britannica aveva interesse a non accettare la sterlina di carta.

La moneta è unità di conto, tesoro dello Stato e mezzo di scambio, e la confusione tra i ruoli ha salvato molti stati. Per Londra, e questo ci parla di oggi, il deficit commerciale verrà saldato con il surplus delle colonie. I passivi della bilancia commerciale inglese erano equilibrati solo grazie alle esportazioni dell’India, colonia di Londra, verso la Cina, che era anche allora grande esportatore di merci verso l’Occidente.

La Germania, ancora lei, dal 1952 ha un surplus della bilancia commerciale, ovvero produce più di quanto consumi, surplus cresciuto fino a diventare il secondo del mondo dopo la Cina, che però ha quindici volte gli abitanti della Germania. Ma fino al 1989 i surplus commerciali tedeschi erano ancora piccoli, e sono cresciuti in modo evidente solo dopo l’annessione della vecchia DDR e la creazione dell’Euro. Detto tra parentesi, è vero che la moneta unica europea è oggi uno strumento di Berlino, ma eliminare l’Euro sarebbe come tagliarselo per fare un dispetto alla moglie.

L’Austria-Ungheria fa poi bancarotta proprio mentre Garibaldi risale la Penisola, e lo stato dell’aquila bicipite fa ulteriormente bancarotta, seguito da quello imperiale russo, nel 1885, mentre gli inglesi fanno ancora default nel 1888. In quegli anni, il debito pubblico tedesco era arrivato al 131%, la Francia veleggiava sul 190% e gli inglesi erano al 135%.

Morale? Chi fa la moneta, lo Stato, non deve essere quello che la spende, altrimenti farà come i proletari che hanno vinto alla lotteria. Successivamente, la fine della II Guerra Mondiale ha riservato qualche altra sorpresa. I nazisti erano economicamente, oltre ad altro, insostenibili. Tra il 1938 e il 1944 il debito pubblico era salito al 200%, i soldi degli Ebrei non ripagavano, è duro dirlo, il costo del loro sterminio. Nel 1948 però i tedeschi fanno all’inglese. No, non scappano senza essere visti, ma riducono per legge il vecchio debito con il nuovo, emettendo un nuovo Deutsche Mark. Nel 1953, visto che il debito estero del Terzo Reich nazista non era solvente neppure così, si arrivò ad una conferenza finanziaria a Londra che stabilì come il debito dovesse essere ripagato solo “alla riunificazione della Germania”.

Ecco: l’Italia non è mai andata in default, salvo che nel 1826 ma solo nel Regno delle Due Sicilie, la crescita del nostro debito pubblico ha le stesse matrici della crescita degli altri europei, si può ridurre il debito pubblico ma solo quando la crescita genera surplus di bilancio, come nel “miracolo economico” degli anni ’60.