18 Aprile 2024
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Anna Maria Curci, Nuove nomenclature e altre poesie, L’arcolaio, 2015

In Nuove nomenclature e altre poesie Anna Maria Curci sviluppa, in sei distinti capitoli, stili e tematiche diverse, mostrando padronanza delle tecniche espressive e raffinata capacità linguistica, il tutto tessuto col filo sottile dell’ironia, quasi a suggerire l’idea che l’arte poetica è gioco serissimo nel quale tutto si può dire, purché con rigore e scienza. Una poesia, la sua, più mitteleuropea che mediterranea, più propensa all’analisi che al pietismo, più fustigatrice di costumi che incline ai sentimentalismi da parata.

Fin dalla prima poesia, Sotto coperta, Anna Maria ci pone con durezza di fronte alla colpa dell’indifferenza generalizzata verso le mille disuguaglianze sociali che le affermazioni di solidarietà a buon mercato servono appena a mascherare, dato che «la coperta o il mantello dimezzato/ protegge ancora solo la tua parte» (p. 17).

La sua poetica è scabra, graffia, mette a disagio per lo sguardo tagliente che la pervade; essa non sollecita la mozione dei sentimenti ma si posa gelida sugli espedienti auto-assolutori con cui cerchiamo di giustificarci. Siamo davvero colpevoli? Possiamo fare qualcosa per cambiare? Non lo so. Ma so che è compito del poeta smuovere le coscienze, illuminare squarci di verità e impedire l’assuefazione al male, il pigro fluire delle coscienze obese verso un’indifferenza infingarda. E questo Anna Maria Curci lo fa con la schietta determinazione di chi preferisce la chiarezza dolorosa della verità alla mistificante manipolazione.

Cosi arrivano le Nuove nomenclature, quei termini cioè che pongono un velo tecnologico, scientifico, economico tra noi e la realtà, per narcotizzare l’orrore e assolverci da ogni responsabilità. Titoli come Assetto economico, Clandestino, Flessibilità, Nasdaq, Rigore, ci propinano una realtà neutrale, edulcorata, sufficientemente accettabile ma falsa.

Qui la critica di Anna Maria Curci è radicale, senza compromessi, condita di fredda ironia, come se non valesse la pena accalorarsi per qualcosa cui non si può più rimediare, essendo le parole già diventate descrizione sciatta del nulla, convenzioni senz’anima, imbroglio privo di dignità e senso. Il dialogo socratico non serve più a fare emergere la verità, ma a mantenere in vita corpi avvizziti, coaguli di interessi che si spartiscono le spoglie del mondo (p. 38).

Poesia concettuale e a volte oscura, ma mai accademica o di pura esibizione, piuttosto di rabbia lasciata decantare affinché più preciso e doloroso sia il taglio inferto sulla corteccia delle nostre coscienze assuefatte. Operazione aristocratica e di resistenza che si consuma nella ristretta cerchia di coloro che hanno ancora consuetudine con la poesia e capacità per coltivarla nel contesto di una società narcotizzata che non si vuole più interrogare, preferendo le risposte di comodo, appositamente preconfezionate per lei.

Diversa struttura ha il capitolo Staffetta, magnifico e regale nella sua malinconia, nella pietà per gli uomini, nell’attenzione per il gesto furtivo, reso eterno dalla intuizione poetica. Qui il poeta si fa spettatore partecipe dell’avvicendarsi delle stagioni, del trascorrere degli eventi sul palcoscenico del mondo.

Illuminata dal sole autunnale si fa strada una fraternità asciutta, una nostalgia lieve che parla di mercati affollati, di sguardi sfuggenti, di gesti intimi e commoventi, come, ad esempio, in Rosso Azerbaigian quello di una mano che scosta i capelli e ferma il pianto: «Se raccogli le cocche dell’abito/ rincorso tra banchi vecchi di città/ e ti disseti assorta e scosti piano i capelli/ pianto sospendi e acqueti» (p. 52), a conferma della forza trasfiguratrice della poesia che rende grande il piccolo e eterno il fuggevole.

È da citare anche Sosta, che ha un incipit avvolgente – «E potrei perdermi, se vuoi,/ nel verdeoro di un autunno affamato» – e una vena sottile di irrimediabile malinconia, che parla del tempo che consuma le cose, di calze bucate e, con bella paronomasia, del filo del “rammendo”, che ricuce il passato: «Sfonda la calza/ l’alluce impaziente./ Nel tascapane ho il filo del rammendo.// Mi rammento di te/ voce vecchia e suadente/ e non ti seguo» (p. 46).

Poi vengono le quartine, gli endecasillabi, i settenari, l’esercitazione scolastica, il virtuosismo da cultrice della lingua, animata dal desiderio di ravvivare l’antica arte del verso, nella sua forma più classica e pura, e, infine, i “canti dal silenzio”, di perfetta musicalità, che sono un’esortazione a non avere fretta, a mettersi in ascolto dell’armonia silenziosa della natura e partire da essa per ricostruire, senza paura della fatica e delle delusioni, la nostra stessa armonia (p. 93).

Poesia densa e ricca di stimoli, dunque, con cui Anna Maria Curci combatte in solitaria battaglia la parola spuria, le manipolazioni dei falsi idoli che della confusione del linguaggio fanno il mantello sotto cui nascondere il bottino, il desiderio bulimico di arricchimento, il comportamento cinico e tracotante.