27 Luglio 2024
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La Francia, il burqa, la laicità ed il paese di Totò

In questi giorni, con particolare impegno e con una certa albagia da sinistra, si è teso a banalizzare la posizione del primo ministro francese, il socialista Valls, che ha detto di condividere il divieto di alcune amministrazioni locali, che hanno intenzione di vietare l’uso del cosiddetto burkini, cioè il costume che copre il corpo delle donne musulmane. A sostegno della polemica contro il premier francese, si sono tirate fuori, sui social specialmente, anche foto di  suore che fanno il bagno vestite, come se chi ha scelto di dedicarsi a Dio anima e corpo, entrando in un ordine religioso (prendendo i voti), sia affatto paragonabile alla donna che ordinariamente, per “scelta”, decide (?) che il suo corpo deve essere coperto, perché la sua Religione afferma che è impuro. Per non parlare poi delle ripetute pubblicazioni di foto delle donne europee che, all’inizio del secolo scorso, vestivano costumi coprenti fino alle caviglie, confermando (un vero autogol!)  l’argomento che una parte dell’Islam non ha fatto i conti con la modernità, con i movimenti di liberazione della donna, che sono passati anche dalla liberazione del corpo. Esattamente la preoccupazione che sta dietro il ragionamento del Governo francese. Infatti, se si fossero lette bene le affermazioni di Valls, si sarebbe potuto apprezzare che dietro c’è un ragionamento, un’idea di laicità e di relazione fra regole e precetti religiosi, fra donna e libertà. Ma noi, che siamo il paese di Toto (“…ogni limite ha la sua pazienza…”), abbiamo difficoltà a misurarci col rigore di chi un’idea di società delle differenze -per quanto discutibile- comunque l’ha definita o sta cercando di farlo e di difenderla. La Francia, infatti, con il discorso del Presidente Jacques Chirac del 17 dicembre 2003 (applaudito da moderati e sinistra), alla luce delle profonde trasformazioni imposte dalla società multiculturale, ha dato avvio ad un profondo dibattito sulla laicità, sul rapporto fra Stato e  religione, sulla relazione fra spazi pubblici e simboli religiosi, arrivando a stabilire un approccio normativo conseguente (per alcuni eccessivamente rigido o dogmatico), da cui poi sono derivati provvedimenti come il divieto di indossare il burqa, ma anche, per i poliziotti, di ostentare simboli religiosi. Nello stesso periodo, il filosofo francese Pena-Ruiz ribadì  l’unica laicità possibile come una laicità “chiusa”, cioè indisponibile a concedere lo spazio pubblico a qualsiasi forma di “invadenza” di simboli religiosi o filosofici o metafisici, così da difendere, senza ambiguità, la (necessaria) neutralità dello Stato. Capisco che, dove la politica si fa coi post, i tweet, le consultazione online di mezza giornata o le direzioni di partito di un paio di ore, immaginare che ci siano parlamenti o partiti dove, prima di votare, si discute approfonditamente, può essere difficile da comprendere, ma succede. In Francia è successo. Come è successo in Canada che ha scelto una linea diversa da quella francese, da loro definita “laicità” chiusa o repubblicana, per sposare invece quella che è stata definita laicità aperta e pluralista, cioè che non esclude le esigenze religiose (ed anche i simboli) dagli spazi pubblici, ma li accoglie, attraverso una faticosa ricerca di punti di equilibrio –che chiamano “accomodamenti”- fra punti di vista diversi, fra sensibilità talvolta ostili. E’ il tentativo di realizzare quello che il filosofo Rawls ha definito “consenso per intersezione”. Personalmente, il metodo della laicità “aperta” mi ha colpito positivamente, ma -all’atto pratico- dimostra una eccessiva complessità gestionale e, comunque, produce punti di evidente tensione/contraddizione, quando lo spazio pubblico diventa spazio di decisione o di servizio: fino a che punto puoi concedere ad un poliziotto di esibire il proprio simbolo religioso? E’ accettabile farsi giudicare da un magistrato che esibisce un simbolo religioso diverso o addirittura in contrapposizione all’imputato? Una maestra in una scuola pubblica è giusto che vesta simboli di una religione? Se lo spazio pubblico è aperto ai simboli religiosi, come si conciliano le tante religiosità possibili? Se “accomodi” l’esigenza religiosa come puoi escludere di “accomodare” un altro sentire, non religioso, ma moralmente altrettanto strutturato? Fino a che punto, poi, le sensibilità esistenziali e morali della maggioranza devono fare spazio a quelle delle minoranze? Chi decide quel limite? Di fronte a questa complessità mi pare che gli “accomodamenti” non siano sufficienti o meglio non sembrano efficienti, per cui -almeno ad oggi- istintivamente mi torna a convincere l’idea di una laicità rigorosa (chiusa?) come quella francese. Quanto meno in nome del principio di economicità. Ma come la penso io non mi pare importante. Quello che mi preme segnalare, agli annoiati dal dibattito sul “burkini”, è che la società multiculturale presuppone proprio la “noia” di un dibattito, di un approfondimento (in Canada hanno addirittura costituito una Commissione di esperti, che ha lavorato, e discusso nel paese, di laicità e differenze culturali, la Ccpardc), di un pensiero su quali sono i confini attorno ai quali si costruisce il convivere di sensibilità diverse, che, se davvero vogliamo accogliere, sempre più metteranno in discussione tempi di vita, orari di lavoro, organizzazione sociale, costumi, modalità di accesso agli spazi pubblici, rapporti maggioranze-minoranze. Quando Valls si dice d’accordo sul divieto del “burkini” credo sappia bene che si tratta di una scelta forse velleitaria e di certo discutibile, ma ha voluto porre un limite, ribadire un’idea di società, definire un profilo di convivenza. Del resto, come ha scritto il grande poeta Wilcock, per quanto labile sia, talvolta abbiamo bisogno anche di disegnare su un vetro appannato. Perciò, possiamo sorridere dei francesi laicamente bigotti, può non piacerci la loro idea (sicuramente con limiti e contraddizioni) di laicità, tuttavia non possiamo sfuggire alla necessità di delimitare i contorni di una società che, se accoglie, deve anche stabilire come e a quali condizioni.