27 Luglio 2024
Poetry

«Io nulla scrivo sulle foglie…». La poesia di Margherita Guidacci

Io nulla scrivo sulle foglie. Vi leggo
quel che le foglie recano già scritto
in sé, nelle intricate nervature
simili a vene sul dorso della mano
o linee incise nel palmo. Il mio sguardo,
che segue il biforcarsi di vie segrete,
coglie ad incroci turgidi di linfa
i nodi del significato. Così
si fa più chiaro il messaggio.
Ma quella che tu chiedi, e che tu chiami
la mia risposta, non è mia, e neppure
è una risposta. È la vita che parla
in ogni cosa viva, mentre passa
verso la morte. Vi pongo di mio
soltanto un giusto angolo di sguardo.
E il calmo gesto con cui, dopo averle
lungamente scrutate, affido al vento
queste mie foglie, e il vento se le porta,
esso solo compiendo
per un diritto immemorabile
il sussurrante vaticinio.

 

 

Esistono diverse ragioni per credere che se la poesia non è un salvagente per la vita, e non serve solo ad addolcire il «vero» con «molli versi» (come scrive Tasso in un celebre passo della Gerusalemme Liberata), forse può aiutarci a mettere a fuoco da ragionevole distanza la scala dei valori cui occorre dare importanza. Questo si avverte nel leggere Margherita Guidacci (1921-1992), di cui quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita: una di quelle poetesse che nel misurarsi con i propri tempi non cede le sue parole alle correnti poetiche del momento. Anzi, sin da quando ha modo, a Firenze, dove nacque e trascorse la sua giovinezza, di frequentare i circoli dell’ermetismo, legandosi a Nicola Lisi, Carlo Betocchi, Piero Bargellini e altri, la Guidacci cerca nuove parole nel duro confronto con la follia di un regime e di una guerra che aveva invaso il quotidiano. Com’è vero che non fu l’ermetismo la sua strada, neanche lo fu il neorealismo, né altro movimento che ebbe luogo in continuità o in contrapposizione polemica. Al contrario, molto onestamente, la Guidacci avrebbe confessato: «La mia poesia è il frutto di poche intense giornate […] lo sbocco di una tensione psicologica». Non si tratta di una poetica di retroguardia. Se lo fosse non susciterebbe l’interesse che si riserva a una poesia che, di là dalla sua conclamata immediatezza e spontaneità (frutto, però, di un paziente labor limae), nasce nel pensiero di un felice ritorno ai “contenuti” che traducono la loro refrattaria inquietudine a una letteratura intesa come mero artificio, annidata in posizioni autoreferenziali, in una miracolosa, nitida chiarità espressiva: «Avevo capito», scrive a proposito la Guidacci, «che i miei interessi erano soprattutto di contenuto; che le parole per me valevano per il loro senso ordinario e corrente, di scambio, […] e che la mia ricerca […] avrebbe dovuto svolgersi in un accostamento drammatico di significati, anziché in un accostamento magico di suoni» (in Poesia italiana contemporanea (1909-1959), a cura di G. Spagnoletti, Parma 1959).

Quel che rende la poesia della Guidacci originale nel quadro della poesia del Novecento, risiede nel tentativo di non volerle ‘programmaticamente’ appartenere, tanto meno di volerla fuggire, così come dimostra la straordinaria dimestichezza dell’autrice, in quanto studiosa e traduttrice, con la grande letteratura moderna – da Blake alla Dickinson, da Conrad a Hopkins, da Eliot a Pound – in direzione di una riflessione accorata sulle sorgenti interiori della religiosità che sorregge, anche e soprattutto criticamente, ogni visione poetica grazie a un allegorismo escatologico che affonda le sue radici nel modello biblico e dantesco della ricerca dell’uomo. Non stupisce, pertanto, osservare la Guidacci raggiungere, di raccolta in raccolta, una purezza dello sguardo che si concretizza in un verso nella cui vibrante limpidezza si dispiega il coraggio di cantare, anche dopo l’apocalissi bellica, l’epifania di un mondo sopravvissuto alla sua polverosa dissoluzione, così come avviene già nella raccolta d’esordio, La sabbia e l’angelo, del 1946, per esempio in versi come questi: «Il mondo è così diviso: in principio è la brezza: / e poi vi sono le cose che con voce o gesto alla brezza rispondono; / e poi vi è anche la pietra crudele, che tronca il volo alla brezza, / e su cui nulla che alla brezza risponda può germinare». Non è qui la sede per appurare se e quanto abbiano a che fare con la cronaca di quegli anni i testi della Guidacci che, saldando Genesi, Blake, la Dickinson, fino ad Eliot, si impregnano dell’attesa di una rigenerazione spirituale capace di trascendere l’imperativo della ricostruzione con la proposta di una radicale rimeditazione sull’umano. A riprova della coerente ricerca poetica della Guidacci, facciamo un balzo in avanti, fino alla raccolta postuma, suo testamento poetico e spirituale, Anelli del tempo (1993), nella quale possiamo constatare che la contemplazione della finitudine, la coscienza di una completezza che la vita, solo proiettandosi nel racconto dell’eternità, può raggiungere, si concretizzano nella tensione a un assoluto che, se in Nerosuite (1970) appare ancora incagliata tra i dolori e i deliri di una condizione concentrazionaria – in un periodo che la Guidacci definì, in Poesia come un albero (1988), «il punto di maggiore desolazione anche nella vita» – finalmente ora si scioglie nella metafora di un volo, probabilmente appreso dalla Notte oscura di San Giovanni della Croce: «Un’impazienza d’ali, dentro di me, improvvisa. / È l’impulso del volo, se non ancora / la direzione del volo. Qualcosa / mi ha chiamata, qualcosa in me risponde. / Io che rispondo sono sconosciuta / a me stessa come la voce che mi chiama».

Tra questi due estremi collochiamo la poesia citata in apertura del presente intervento, tratta da Il buio e lo splendore (1989), che suonano come una sentita dichiarazione di poetica, sotto le spoglie di un recitativo attribuito alla voce di una sibilla, alter ego dell’autore. Un filtro necessario per dare forza alla parola della poesia che non può più assurgere al registro profetico, e comunque non può neanche rinunciare alla conoscenza del mistero, dietro le paratie e la paranoie di un secolo che giunge proprio nel 1989 a una svolta, e improvvisamente scopre la sua “brevità”. Già anni prima (in due interventi scritti fra il 1949, Letteratura e società, in «La Città», n. 3, e il 1954, Impegno e autonomia, in «L’Esperienza poetica», n. 3-4) la Guidacci aveva distinto tra il poeta, che, in quanto uomo, non può chiudere gli occhi davanti ai fatti e alle questioni sociali che travagliano i suoi tempi, e la sua opera, che invece acquista significato proprio nella misura in cui riesce ad andare oltre la rappresentazione di un’attualità effimera, grazie a uno sguardo più alto e a un gesto più ampio e profondo. Ed è ciò che si avvera nella poesia messa in esergo, in cui l’autrice lascia parlare la sibilla cumana, sin dal suo preambolo («Io nulla scrivo sulle foglie…») che non rifiuta, almeno teoricamente, il riscatto della Storia, ma preferisce alla sua maschera ideologica la generosità della Natura che ha già tutto sapientemente inciso sulle foglie, nelle «vie segrete» delle loro «intricate nervature», che ricordano le linee sul palmo delle nostre mani, prevedendo domande e risposte («È la vita che parla / in ogni cosa viva, mentre passa / verso la morte»). Che cos’è che fa «più chiaro il messaggio» della profetessa, in cui si staglia en abîme quello della poetessa? La vita, nella sua transeunte figura, è lei «che parla / in ogni cosa viva, mentre passa / verso la morte», e intanto richiede, da parte di chi impegna la sua parola nello scrutarle a lungo e nel decifrarle, semplicemente «un giusto angolo di sguardo», ovvero un punto di vista capace di vincerne la transeunte apparenza. Dilegua, a questo punto, il soggetto stesso del discorso poetico, l’io che dice io, essendo un puro strumento di un orizzonte creaturale che lo trascende; e viene meno, altresì, il suo vano affannarsi dietro i sentieri di una fama tutta personale ed effimera, dal momento che non resta che affidare, con «calmo gesto», ogni «sussurrante vaticinio» a un «vento», sulla cui simbologia neotestamentaria è inutile speculare. Non diversamente, al poeta di Ungaretti del Porto sepolto accadeva di disperdere i suoi canti, dopo averne scavate le parole nella sua vita (si leggeva in un’altra poesia) come da un abisso.

Pochi altri testi sono così rappresentativi della poetica della Guidacci, e ci consentirebbero di delineare, in filigrana, una temperie spirituale intesa a dare senso, sulla via di una disillusa ma tenace visione creaturale, alle inquietudini del Novecento. Hanno ragione quanti intravedono nella poetessa di Firenze il tentativo di cantare la gioia, di invitare alla vita. Non saprei dire però se esso consiste nel pieno appagamento interiore che proviene dalla commossa partecipazione agli eventi della storia di cui ciascuno di noi potrebbe ritenersi in qualche misura corresponsabile, o non è invece l’energia del suo verso intenso e tagliente come quello dei Salmi, che non si arrende di fronte al vuoto della morte, anzi ne sogna e disegna la forma, la sua possibilità di liberazione, come nel progetto di chi si avvia a un cammino che non richiama tanto l’ineluttabilità della fine, quanto la speranza di un fine. Il segreto probabilmente è nel dono stesso di una poesia che si espone al mondo nella sua apparente nudità, e non per enfatizzare la dolorosa esperienza, ma per cercarne una voce di conforto e di pace, un «impulso immortale» che solo recuperando l’umano si può intuire.

 

Salvatore Ritrovato

Salvatore Ritrovato (1967), poeta, critico, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Urbino. Fra le sue ultime pubblicazioni, la nuova edizione di La differenza della poesia (Puntoacapo, 2017), e la breve raccolta di versi, Cercando l’isola (Fiorina edizioni, 2017).