18 Aprile 2024
Sun

Luisa Delle Vedove, Nella consuetudine del tempo, Samuele Editore 2021, pag. 78, € 12,00

C’è una casa che “rimane solida/ da più di cent’anni” e mani che si attardano sul cancello, lo sguardo che va oltre mentre scorrono memorie. Torna l’infanzia dalle “ombre corte e audaci”, col calore dell’ora meridiana, con “quel sentirsi subito vivi”, invece ora le ombre sono lunghe, la casa è fredda “nel nord assoluto/che la tiene”.
Casa come qualcosa che ancora vive, a cui si sente di appartenere – “la casa che mi ha” – tuttavia  “denutrita” come tutte le case non vissute, vuote, dove è padrone il buio.
E’ stata casa di presenze e di vita e lo ripete ancora il vento: “il vento/dei cieli chiari di settembre/ha voci di neve/dicono madre ancora/ e in quel nominare/la fine di qualcosa”.
Casa-madre che compare avvolta in un paesaggio innevato divenuto culla protettrice, nel continuo accadere della vita dove tutto si tramuta: anche se si è sulla scena, forse quello non è più lo stesso paesaggio della memoria.

Luci e buio si contrappongono nei versi di Luisa Delle Vedove, essenziali, puliti, evocativi. Tornano le albe innevate, albe “intraducibili”, meravigliose da mozzare il respiro; torna la dolcezza delle sere invernali, quando la sera è  madre che cura perché “mi riprendeva dal giorno per qualcosa/in cui fiorivo inconsapevole”, quando giochi e spazi si dilatavano agli occhi fanciulli: “i pochi giochi dell’infanzia che riscaldano l’angolo”.
La vita si contrapporre alla morte tanto che la bellezza e la luce sembrano un insulto “dentro qui…dove niente/nasconde per certo la morte”.
Se “la sera nel dopo si posa/ e il silenzio alla sua ultima riva” – sera a tramonto sono sempre usati nel loro significato simbolico – “c’è come un pulsare d’eterno/in questo tacere delle cose”.

Il vento – e qui non si può non pensare a Luzi – è una costante per Luisa Delle Vedove, vento che muove memorie e solitudini, che ha “suoni erosi”, vento nudo che soffia sui picchi di roccia, che contiene la presenza del divino: “l’aria è ampia/piena di stelle/le ultime mani tremule/ sulle betulle/ e il vento/ il vento…”
Se morire è un “dissolversi lento in polvere e suono”, può essere persino dolce andarsene nel freddo che attanaglia i pioppi e il gemito del fiume, perché noi siamo  – dicono i versi della poetessa – “qualche movimento verso il dopo” e conteniamo la morte.
Le immagini della svuotarsi di una vita, del suo sciogliersi come “un rosso diluito nell’acqua”, del momento in cui ci si arrende allo sfinimento e si recide il legame con il di qua, per riallacciare il legame con chi se ne è già andato, “quando l’amore []la divideva dall’amore”, aprono ad una riflessione su quel transito verso un silenzio simile al prenatale: “gesto infinito di silenzio in silenzio”.

Il mistero e la grandezza della morte hanno una domanda inquieta ma rassicurante: “La morte è la metà di Dio?” Di conseguenza “la vita è l’altra metà di Dio?” Allora vita più morte significa Dio. La sentiamo intorno a noi questa energia che striscia, quasi “una bestia di luce”, ma è impossibile cogliere l’assoluto: “non senti come continua/ – l’assoluto – a tremare”. E’ necessario trovare risposte, ma forse le persone semplici “che estraggono il pane dal sacchetto, che è il cibo loro e dei piccioni”, forse solo loro hanno in tasca “parole superbe ed eterne/da condividere”.

Alla chiara nostalgia e alla luminosità delle memorie di quella bambina che ascoltava in “un’invasione quasi sonora/di sole”, si affianca  un riappropriarsi della casa con i suoi elementi, la finestra, l’aria fresca, il canto, la voce chiara e lei presente, ed un riconoscerla, la casa, più sua dopo il temporale. In questo ritrovarsi si accorciano le distanze e non importa se tutto accade e si trasforma, se “nulla resta immutato/-solo il cucchiaio è fermo/al momento  nella tazza-, perché tutto è rimasto uguale nella  percezione personale.
La vita trascina ancora avanti, il rumore di tacchi sul selciato si contrappone al silenzio, il movimento si contrappone alla stasi iniziale, alla solitudine risponde il bisogno di sentirsi in cammino con gli altri, perché nella solitudine non sei riconosciuto, invece: “Vedere ed essere visti/prova del nostro esserci: anch’io ci sono/anch’io ho questo posto/che cambia il passo successivo,/quando mi vedo/nel tuo vedere che sono”.

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.