23 Aprile 2024
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Gabriella Musetti, Un buon uso della vita, Samuele editore 2021, prefazione di Chiara Zamboni

“D’accordo: non vale niente./ È meno del fumo/ assai meno del vino./ Ma uno non può morire/ senza un briciolo di poesia”, si legge nella citazione esergo di Pieraldo Marasi. Con questo presupposto Gabriella Musetti, nella prima parte della sua raccolta, ci presenta una folta schiera di donne anonime scomparse, e non può mancare al lettore un immediato rimando a Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters.

Queste le parole di Fernanda Pivano, che aveva tradotto Masters e lo aveva proposta a Cesare Pavese: “…la semplicità scarna dei versi di Masters e il loro contenuto dimesso, rivolto ai piccoli fatti quotidiani  privi di eroismi e impastati soprattutto di tragedia, erano una grossa esperienza[…]In questi personaggi che non erano riusciti a farsi “capire” e non avevano  “capito”, dal loro dramma di poveri esseri umani travolti da un destino incontrollabile, scaturiva un fascino sempre più sottile”.

La Musetti raccoglie figure femminili soltanto,  donne sorprese dalla morte nel mezzo della loro giornata o nella notte: chi sta fumando una sigaretta, chi siede alla cattedra davanti alla classe, chi si trova tra la folla del supermercato, chi va a prendere la figlia a danza, chi si sta truccando davanti allo specchio, chi sta prendendo un caffè, chi scende le scale…Vite interrotte all’improvviso, anche in piena giovinezza, una violenza inattesa che lascia un senso di smarrimento e alimenta la sensazione di precarietà del vivere, rafforzando il disagio esistenziale e lo  spaesamento  che stiamo vivendo nella situazione pandemica che ci perseguita.

Ma non rimane questa precarietà come tema di fondo, perché l’elenco delle donne scomparse scopre la fatica di esistere ed il dolore non palesati: “era morta di notte/tra le botte della sera e quelle del mattino”. Denuncia la fatica del vivere e sopportare, tanto che si comincia a morire – dentro – molto prima che l’evento avvenga: “era stata un morte protratta/iniziata tempo addietro”; talora si è vissuto consumate da sensi di colpa per una gioia rubata, o si è riconosciuta troppo tardi una sofferenza che ha portato alla morte “mangiandosi di dentro”.

La morte le ha colte prima che la vita le risarcisse, senza dare loro le cose belle e le sincere relazioni a cui anelavano, lasciandole a metà come persone irrisolte. Chi è stata “ardente e generosa” non ha neppure avuto la consolazione del pianto: “lei era morta senza compianto”.

Probabilmente anche loro non erano riuscite a farsi “capire” e non avevano  “capito”, come dice la Pivano.

Alla fine di questo lunga teoria di immagini femminili rimane la sensazione di aver conosciuto una donna sola, sembra infatti di essere davanti alla molteplicità caleidoscopica della donna in sé, capace di essere una e centomila. Questa sensazione è rafforzata dalla mancanza di punteggiatura a separare, a far prendere respiro: siamo di fronte ad un fiume in piena che ci travolge.

In realtà – credo sia il pensiero della Musetti – purtroppo questa donna non è nessuna, nella considerazione, nella importanza, nel rispetto, perché il potere maschile continua a tenersi stretti i privilegi di cui si è sempre appropriato e fatica a  concedere alla donna la stessa dignità. Eppure “si nasce uguali da un ventre aperto/dal buio vede la luce”. Purtroppo è una condizione solo iniziale perché tutto cambia subito, senza regole prescritte, dipende dal contesto in cui uno si è trovato a vivere “a caso”, ed in cui  deve imparare a collocarsi.

La seconda parte, quasi contrapposta alla prima, è un elenco di figure celebri che hanno scelto la morte: Sylvia Plath, Virginia Woolf, Amelia Rosselli, Gaspara Stampa. Ingborg Bachmann, Saffo, Antonia Pozzi. Alfonsina Storni. In realtà è un completamento, – non da intendersi come istigazione al suicidio – è  la drammatica soluzione a esistenze disagiate nell’anima, non realizzate, non risarcite.

E’ “l’inaddomesticato” che “è non ritorno”, perché “la materia dolente/ il vuoto/ non pretende di essere colmato”.

Mentre queste creature hanno avuto il coraggio disperato di recidere il legame con la vita,  alle altre cui questo coraggio manca non rimane che tollerare, piegarsi, subire, accettare la disperazione, attendere la morte, quando  deciderà di arrivare.

Una umanità fissata con un realismo crudo, questa della Musetti, umanità nuda che la bellezza e la leggerezza del verso cercano di accarezzare, di proteggere, mentre risuona nell’orecchio l’anafora che batte ossessiva “è morta”, “è morta”.

Il titolo contiene  una contraddizione in sé, ossimorico  rispetto al testo, ma anche una speranza: è un invito a tutte le donne – ma all’umanità in generale – a fare un buon uso della vita, indipendentemente dal contesto in cui siamo caduti: “un buon uso della vita/ e la nostra autobiografia /di tutti/ – dice Maria Pia –/ diventi un viaggio/ meno accidentale/ non raro non avaro/ e strisci dentro luoghi/ contenenti sale”.

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.