8 Dicembre 2024
Words

No Russia, no gas

Dal 2000 in poi Vladimir Putin ha sempre utilizzato il gas come leva politica nelle crisi ucraine, ma il taglio totale delle forniture russe all’Europa è un’ipotesi che non è mai stata presa seriamente in considerazione, neppure negli scenari più catastrofici. Il gas si è sempre spostato senza problemi dalla Siberia verso Occidente, attraverso l’Ucraina, la Bielorussia, il Mar Baltico, il Mar Nero e con le navi metaniere, mentre i dollari e gli euro sono andati in direzione inversa. Negli ultimi vent’anni c’è stato un calo del 10% dei consumi europei, dovuto sia a maggiori efficienze che alla crescita delle energie rinnovabili, ma contemporaneamente è diminuita la produzione continentale, passata da circa 290 a 200 miliardi di metri cubi l’anno. Risultato: il ricorso al gas russo è aumentato. Nel 2021, dice l’Iea, sono arrivati nell’Unione europea circa 155 miliardi di metri cubi di gas, pari al 45% dell’import di gas e al 40% di tutti i consumi.

Quanto incassa Mosca
Secondo la Banca centrale russa le entrate derivanti dal gas e dal petrolio esportati nel 2021 hanno raggiunto i 240 miliardi di dollari. Proprio grazie agli eccezionali prezzi spot del barile (sopra 100 dollari) e del MWh di gas (arrivato anche sopra 200 euro) ogni giorno la Russia potrebbe incassare tra 1 e 1,2 miliardi di dollari, una cifra sufficiente a coprire i costi della guerra in Ucraina, visto che i pagamenti per l’energia non rientrano nelle sanzioni. Un’ipotetica chiusura dei rubinetti non avrebbe gli stessi effetti ovunque: Danimarca, Regno Unito, Belgio, Spagna, Portogallo o non ne risentono oppure sono colpiti solo in minima parte. I Paesi dell’Est sono invece quasi totalmente dipendenti, ma importano quantitativi contenuti e per loro potrebbe essere meno problematico spostarsi su fonti energetiche come carbone e petrolio. La Francia ha sempre puntato sul nucleare e la dipendenza dal gas russo è bassa (8 miliardi di metri cubi). Chi paga il prezzo più alto in assoluto è la Germania: 43 miliardi di metri cubi equivalenti al 51% del suo import. Seconda viene l’Italia: 29 miliardi di metri cubi nel 2021, ovvero il 40% del totale che importa. E’ evidente che è impossibile sostituire questi quantitativi dall’oggi al domani, e sarebbe difficilissimo anche nel medio termine.

Il gas via nave
Per l’Europa la strada più veloce è quella di incrementare l’afflusso di gas liquefatto (Lng), trasportato via nave ai terminali di rigassificazione. Nel 2020 il principale fornitore è stato il Qatar, con circa 30 miliardi di metri cubi. Poi gli Stati Uniti (25,6), la Nigeria (14,6) e l’Algeria (13,9). Nelle ultime settimane diverse missioni diplomatiche occidentali si sono rivolte all’emiro Al Thani, ma la risposta è stata inequivocabile: il gas è già legato a contratti di vendita di lungo periodo con compratori per la maggioranza asiatici (Cina e Giappone) e solo un 10-15% aggiuntivo potrebbe essere disponibile per l’Europa. Potrebbero quindi i soli Stati Uniti spingere più navi metaniere verso i mercati europei? Nel 2021 dagli Usa sono arrivati 29 miliardi di metri cubi di gas, 8 solo tra novembre e dicembre perché i prezzi europei erano diventati più attraenti di quelli asiatici. C’è però un altro ostacolo: non sapremmo dove ricevere tutto quel gas per carenza di infrastrutture. Secondo le rilevazioni fatte a gennaio dal Gis (Geopolitical Intelligence Services) la capacità di rigassificazione continentale era già al 75%. L’Europa centrorientale ha una struttura di trasporto insufficiente. La Germania non possiede alcun rigassificatore. Solo la Spagna ha fatto investimenti corposi e ne ha sei, ma la sua interconnessione con la Francia consente il passaggio di solo 8 miliardi di metri cubi l’anno. L’Italia ne ha tre: Cavarzere, Panigaglia e Livorno.

I gasdotti storici
Il secondo fornitore europeo è la Norvegia, ma il primo ministro Jonas Gahr Store ha detto nei giorni scorsi che la produzione di gas non potrà crescere in tempi brevi. E’ lo stesso problema che ha l’Italia con i suoi fornitori: Algeria, Libia, Olanda e da ultimo Azerbaigian. Da un punto di vista teorico i gasdotti esistenti dispongono di una capacità aggiuntiva, ma il problema sta nella materia prima da convogliare nei tubi, che comporterebbe un cambio di passo delle estrazioni algerine, una pacificazione della Libia ancora lontana e un impegno maggiore dell’Azerbaigian, come prospettato dal presidente Ilham Aliyev alla Commissaria Ue all’energia, l’estone Kadri Simson. Bisognerebbe però anche rispondere a una domanda di fondo: quale Paese produttore riterrà conveniente investire ed esporsi verso un continente che sul lungo termine ha decretato come irrinunciabile l’abbandono delle fonti fossili, gas compreso?

Germania – Italia: lo scenario
Alla fine una delle soluzioni più immediate per ridurre il peso del gas russo in Germania è stata annunciata nei giorni scorsi dal ministero delle Finanze di Christian Lindner: considerare la riapertura delle tre centrali nucleari fermate lo scorso anno, e prolungare la vita alle altre tre il cui “phase out” è programmato entro fine 2022. Potrebbero compensare 4-5 miliardi di metri cubi di gas, circa il 10% delle forniture da Mosca. Per quel che riguarda l’Italia, lo scorso anno abbiamo consumato 76 miliardi di metri cubi di gas e 29 sono arrivati dalla Russia. Ad oggi le contromisure che il governo ha in cantiere prevedono un aumento della produzione nazionale per 2 miliardi di metri cubi; un maggior riempimento degli stoccaggi; un contributo da produzioni aggiuntive di 10 miliardi di metri cubi da Algeria e Libia, anche se disponibili a breve sono poco più di 5. Poi ci sono 4,5 miliardi di metri cubi di capacità non utilizzata dai rigassificatori esistenti e l’installazione di 3 nuovi impianti galleggianti, che potrebbero assicurare 10 miliardi di metri cubi, ma i tempi di autorizzazione e costruzione si misurano in anni. Anche installare 8GW di energie rinnovabili l’anno, come previsto dalle strategie energetiche nazionali e “facilitato” dall’ultimo decreto, potrebbe contribuire a diminuire di 2,5 miliardi di metri cubi il bisogno di gas. Intanto, pochi giorni fa, il premier Mario Draghi ha annunciato la temporanea riapertura delle centrali a carbone: quella Enel di La Spezia, chiusa a dicembre 2021, e quella A2A di Monfalcone. In teoria, facendo operare le 7 centrali a carbone a pieno regime si determinerebbe un risparmio di gas di 8 miliardi di metri cubi l’anno, ma le difficoltà del riavvio portano la stima a 4 miliardi. La metà del carbone utilizzato, poi, arriva proprio dalla Russia e andrebbe ovviamente sostituito in tempi brevi. La contropartita: fino a 28 milioni di tonnellate di CO2 in più, l’8% delle emissioni nazionali.

L’autunno freddo
Tirando le somme: molte contromisure non sono immediate mentre il rischio di un’interruzione delle forniture dalla Russia, totale o parziale, per volontà politica o per incidente militare come il caso delle centrali nucleari ucraine ha mostrato, non può essere esclusa. In caso di blocco totale delle forniture l’Italia ha un’autonomia di almeno 8 settimane. Però bisogna fare bene i conti su cosa ci attende in autunno. Quale sarà la disponibilità di gas? Dati certi: 2 miliardi di metri cubi in più dalla produzione nazionale; 4 dalle centrali a carbone; 2,5 arriveranno dai rigassificatori; 4,5 dal gasdotto algerino; 1,1 da quello libico. Qualcosa dagli stoccaggi e dal Tap. Se va tutto bene la dipendenza dalla Russia passerà dai 29 miliardi di metri cubi di oggi a 14 miliardi. Vuol dire che sarà difficile evitare una nuova austerità. E non è tutta colpa della tragedia russo-ucraina, perché negli ultimi vent’anni non abbiamo mai predisposto un piano nazionale, ed ora siamo costretti a rincorrere la sicurezza energetica barattandola, tra l’altro, con il riscaldamento globale.

[di Stefano Agnoli e Milena Gabbanelli – tratto da Corriere della Sera]