27 Luglio 2024
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Anna Barsotti, Scritte col fumo (1990-2020), Edizioni ETS, Pisa 2022, pp. 136

Il titolo del corposo esordio poetico di Anna Barsotti, Scritte col fumo, prima ancora che ci si inoltri nella lettura dei testi, sembra evocare l’immagine di una poesia concretata in parole (scritta, appunto) ma presta a dissolversi in evanescenza incorporea. Ma quel fumo è in primis la concomitanza, reale e fatale, che «innesca» il «corto circuito» della poesia stessa: la prima sigaretta all’alba mentre tutto intorno ancora dorme e tace, l’auto blandimento che il gesto familiare e quotidiano convoglia rapido, è davvero l’innesco che chiude l’io al mondo di fuori e lo conduce quasi prodigiosamente nel mondo riposto e solitario in cui i «pensieri», pur se affastellati «in caotica ridda» (Fibrillazione), trovano sulla pagina, e l’io con loro, la traccia del loro esistere più intimo.
Poesia-fumo come congiuntura, dunque, come ricerca e accoglimento del momento creativo – necessario com’è nella natura di ogni vizio –  nel tempo colpevolmente sottratto ad altro (al sonno, agli affetti, all’imperativo dei vincoli diuturni e morali): momento creativo che la sigaretta accesa a sua volta accende in un gioco anche estetico («design-parola», La prima sigaretta) di rispecchiamento semantico, fortemente simbolizzato nella estrema riduzione all’istantaneità dell’accensione di ogni possibile «concordanza» (ibidem) tra io e mondo, tra dentro e fuori, tra testo e gesto.

Se la modernità aveva inesorabilmente consegnato allo scorso secolo, quello non a caso evocato dalla seconda poesia (I poeti illaureati), la possibilità di un rapporto tra vita individuale e realtà altra da sé solo come frattura, come lacerazione non risanabile, le poesie scritte col fumo recuperano quella consapevolezza e la aggravano anche sotto la specie della dimensione domestica. Nelle prime due sezioni, infatti, non solo il reale necessariamente de-siste se a in-sistere è il luogo della creazione lirica, ma persino lo spazio larico non è più dimensione proiettiva (e protettiva) dell’io se può ospitare la Poesia, sintomaticamente con la maiuscola, solo previa desertificazione, solo previo svuotamento di ogni altro palpito vitale, all’infuori di quello del “me” artefice e colpevole di quello svuotamento («Il Luogo della Poesia è / la casa deserta, la casa abbandonata e / me, colpevole d’abbandono»), e del gatto affaccendato con il suo trastullo ugualmente totalizzante («Il Luogo della Poesia / è la casa, quando è sola, / quando sono sola col gatto / che tramena di là / col sacchetto di plastica»; Il Luogo della Poesia).

Il rapporto tra io e mondo nel momento della creazione si specifica infatti in quell’«ora doverosa» della poesia che è «subito definita» (Il vecchio maghetto), cioè delimitata ma anche distinta e individuata nel suo ricercato accadere quotidiano e insieme quasi acronico e atopico, generato da un atto volitivo di auto-esclusione. Non-luogo e non-tempo in cui è permesso solo al gatto di restare (a meno che non sia lui a sfuggire) come ponte tra le due dimensioni, come aggancio che assicura il persistere pur entro l’elusione poietica. È, anzi, il suo restare, il suo «tramenare» con il sacchetto dell’Upim (altro aggancio con la realtà che resta, ma solo nelle maglie di una trasmutazione: la busta, tramutata in gioco, perde la sua funzione e ogni richiamo al dover essere contingente), a costituire il sottofondo non solo non sgradito ma identificato come dimensione propriamente creativa (come Luogo della poesia, appunto). Al contrario una «serranda / alzata» all’improvviso, di là da questa dimensione, richiama alla vita nel suo concreto trascorrere e interrompe il non-trascorrere creativo del tempo rubato. La tradizionale vocazione artistica del poeta, dunque, declina sì l’elezione in appello improvviso e canonicamente eteronomo («anche la mia poesia procede / dal Super Io, da voce indistinta / che m’appella d’improvviso») ma allo stesso tempo ha bisogno di una disposizione dolorosamente scismatica dell’io che al dovere del tempo «quotidiano – fastidioso e / incombente» sovrappone e sostituisce una realtà doverosamente egoistica, che porta con sé il peso della colpa (Il vecchio maghetto).

Il rovello della «colpa» (parola-tema) contribuisce ad amplificare la quasi clandestinità dell’atto creativo, possibile solo se si scende a patti con la condizione lacerante, e distintamente femminile, del dover essere-per-l’altro, possibile solo se si accetta l’inconciliabilità tra la consapevolezza dell’«obiettivo finale dell’emancipazione» e l’amara presa di coscienza della sua impraticabilità, tra la ricerca del proprio spazio di autonoma verificazione e l’avvertimento odioso ma inalienabile (come il torturante refrain dell’«acqua che sgocciola nell’acquaio», Il luogo della poesia) dell’obbligo alla cura (dell’altro, della casa, di tutto ciò che alieno trascorre). Il Luogo della poesia è allora anche nella sacertà di un’espiazione «alla rovescia» (altra immagine ritornante), che non redime, non esorcizza, non risana, ma inchioda l’io nella bolla auto-esclusiva della sua «inappartenenza».

In questo sentimento di inappartenenza è il senso più profondo della raccolta, il suo omaggio sacrificale ai demoni novecenteschi dell’insufficienza, della mancanza, dell’allontanamento sistematico del sé e dell’altro dal dominio del possesso, che passa proprio attraverso il tentativo di un’appropriazione linguistica ed espressiva. È la parola poetica infatti a sussumere su di sé tutti gli aspetti di questa ricerca identitaria impraticabile, perché impossibile è legare il nome all’essere nello stato presente di sovrabbondanza di espressioni fruste e inefficaci, in quella condizione post-apocalittica della letteratura già indicata profeticamente da Giulio Ferroni (cfr. Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura), e di cui questa poesia si fa pienamente e individualmente carico. Se «in principio era il Verbo», la parola giovannea propriamente creatrice lascia infatti ora il posto all’avvertimento – e non a caso nel testo programmaticamente incipitario della raccolta (1990) – di una condizione terminale, del secolo come dell’essere autentico. Si instaura allora una sorta di moto di andirivieni tra accesso volitivo verso l’attestazione identitaria («parole-parole, parole-verità / parole-identità») e inevitabile recesso («parole-nonsense)», che finisce infatti per bloccarsi nell’immagine statica e ossimoricamente infertile dell’«oasi di afasia», mentre a (r)esistere è solo «il ritmo» cantilenante del verso, e una parola non-creatrice e non-identitaria («Alla fine è il verbo / senza maiuscola»), che nel ricordare la confessione montaliana ne recupera insieme il valore resistenziale affidato proprio, e solamente, alla poesia. Paradossalmente, è proprio la consapevolezza della non dicibilità di ciò che è a rendere cantabile ciò che esiste, e resiste, abbarbicato, come quercia ungarettiana (Magari in folle), alla riscoperta degli affetti familiari – pur entro rapporti a volte contrastivi –, alla rivelazione epifanica, soprattutto nella terza sezione, della natura e della città nei loro elementi minimi e primari, che se anche assumono carattere residuale – anzi, proprio in virtù di questo – come la «foglia scampata / al gelo» (Giardini d’inverno), come un mare scintillante intravisto dal treno (Una striscia intermittente), come le rondini incorniciate dal vetro sporco di una finestra (Di nuovo le rondini), come la Mole Antonelliana affettuosamente diminuita a pupazzo di neve (Farfalle di neve), riescono ad assicurare una rinnovata dicibilità, in similitudine, anche dell’essere, dimidiato ma, insieme, potenzialmente deflagrante:

perché non sono intera
[…]
ma oscillante come i fiocchi
che possono diventare tempesta.

Il fumo del titolo, di là dall’essere contingenza reale, mi pare resti allora referente anche metaforico dell’intera raccolta come il residuo significantissimo, e finalmente cantabile, di un’avvenuta consunzione, e quella suggestione iniziale che il titolo genera continua a funzionare sottotraccia all’interno di un percorso lirico in cui il filo delle parole e l’attentissimo andamento ritmico si dipanano come fossero davvero fumo che danza.