25 Aprile 2024
Words

Kissinger, Usa in guerra per la pace

«La Russia ha perso la guerra, ora dobbiamo impedire la sua escalation nucleare. Potremmo batterla anche in quello scenario, ma la natura delle relazioni internazionali e l’intero sistema mondiale verrebbero sconvolti. La diplomazia deve tornare in azione». Henry Kissinger parla al Council on Foreign Relations di New York, un luogo per lui denso di ricordi.
In questo think tank di geopolitica, nel 1957, pubblicò il saggio che divenne una pietra miliare del pensiero strategico americano: Nuclear Weapons and Foreign Policy. Teorizzava la nascita di armamenti nucleari tattici — destinati a essere usati solo sul campo di battaglia e contro un’aggressione di truppe nemiche — e ne soppesava tutte le conseguenze. Quello studio fu premonitore di una nuova carriera, da professore universitario a capo della diplomazia americana sotto i presidenti Richard Nixon e Gerald Ford. A 99 anni, la sua saggezza e il suo acume sono interpellati per cercare una risposta alle minacce di Vladimir Putin, proprio sull’uso di armi nucleari tattiche in Ucraina.

Kissinger ha pubblicato un nuovo libro, intitolato Leadership, galleria di ritratti di sei grandi statisti del Novecento. Non si tira indietro sull’escalation nucleare. «Fin dall’inizio dell’aggressione all’Ucraina — dice — bisognava evitare una vittoria della Russia. A maggior ragione bisogna evitare che cerchi una rivincita nucleare. Non possiamo permettere che l’uso di armi nucleari diventi convenzionale, si normalizzi. Non solo per quello che sarebbe il tremendo risultato immediato, ma per le conseguenze sull’interpretazione e la legittimazione del potere da parte di chi le usa. Non è ammissibile che la Russia raggiunga con le armi nucleari il risultato che non è stata capace di ottenere senza».
L’ex segretario di Stato spiega quale tipo di risposta dovrebbe dare la Nato, se Putin usasse davvero l’atomica in Ucraina. È un tema sul quale ci sono state di recente comunicazioni tra i vertici militari Usa e quelli di Mosca. «La Nato — osserva — dovrebbe reagire il più a lungo possibile con armi convenzionali. Ma i dirigenti russi devono sapere che nel caso usino armi nucleari i termini per un accordo di pace diventeranno peggiori per loro, la Russia ne uscirà come una nazione più debole di prima».

Il cinismo
Accusato talvolta di cinismo nella sua Realpolitik, Kissinger precisa che una via d’uscita non può passare sopra la testa del popolo ucraino. «L’Ucraina non va demoralizzata. Deve avere un ruolo primario nel processo di pace». Redige un suo elenco di tutto ciò che Kiev ha già ottenuto nei fatti da quando ha saputo resistere contro l’invasore, e che dovrebbe essere sancito in qualsiasi accordo di pace. «Le tutele della libertà ucraina includono la sua appartenenza all’Unione europea. In quanto al suo rapporto con la Nato, è già stato risolto dagli eventi. Per questo la Russia ha perso. Nella Prima e nella Seconda guerra mondiale la Russia aveva dimostrato la sua capacità di minacciare l’Europa sul terreno degli armamenti convenzionali, ora questa sua forza è stata sovrastata».

La diplomazia
Tuttavia il più grande teorico vivente della diplomazia vuol tornare proprio a quello: la diplomazia. «Un dialogo, anche solo esplorativo, è essenziale in quest’atmosfera nucleare. Non è rilevante se Putin ci piaccia o no. Una volta che l’arma nucleare dovesse entrare in azione, il sistema mondiale subirebbe uno stravolgimento di portata storica. Non dobbiamo legare l’azione diplomatica alla personalità di chi ci sta di fronte. Sta a noi concepire un dialogo che preservi la nostra sicurezza ma ci riporti allo spirito della coesistenza. Il rovesciamento del leader avversario non deve apparire come una pre-condizione».

Non è tenero con i suoi, non fa sconti sugli errori commessi in passato. «Quando cadde il Muro di Berlino e cominciò la grande ristrutturazione dell’Est europeo, gli Stati Uniti cercarono di integrare tutta l’area in un ordine sotto la loro guida. Non fu saggio cercare di includere l’Ucraina nella Nato. Questa non è una scusa per l’aggressione di Putin. Ma il problema ora è se sia possibile una pace con lui. E questa va affrontata in un quadro più ampio: il futuro di lungo termine nelle relazioni fra la Russia e l’Europa, fra la Russia e l’Occidente. Una Russia che sia più consapevole dei propri limiti, vorrà essere parte dell’Europa oppure sceglierà l’Asia? Su questo dovremmo impostare il dialogo».

Il disgelo con la Cina
Il suo posto negli annali del Novecento, lui se lo è conquistato come regista del disgelo Usa-Cina nel 1971-72. Quella relazione è rimasta al centro della sua attenzione. Rispetto al celebre summit Nixon-Mao, oggi i rapporti fra Washington e Pechino sono ai minimi storici. «La Cina — riflette Kissinger — è sempre stata una sfida speciale per l’America, a causa delle sue dimensioni, oggi più formidabili che mai sul piano economico tecnologico e militare. Non abbiamo mai avuto a che fare con un Paese così imponente e la cui filosofia è praticamente opposta alla nostra. I cinesi considerano la storia come un processo continuo che si dipana su migliaia di anni. I singoli problemi — che noi affrontiamo uno per uno — li vedono come espressioni di quel processo». Oggi che i rapporti di forze sono quasi paritetici, la ricerca di un modus vivendi sembra difficile. Eppure è essenziale, ne va del futuro dell’umanità. «Durante le ultime due amministrazioni americane — osserva Kissinger che ha continuato ad essere consultato dai presidenti sia a Washington che a Pechino — è prevalso lo scontro. Occorre ristabilire un dialogo sul tema soverchiante: una guerra tra le superpotenze avrebbe conseguenze peggiori della Prima e Seconda guerra mondiale. Come minimo i dirigenti americani e cinesi riconoscano che questo pericolo esiste, che loro sono gli unici ad avere la possibilità di superarlo. Di conseguenza mettano a punto dei meccanismi preliminari per parlarsi nei primi stadi di una crisi. E poi ci sono i grandi temi su cui la cooperazione bilaterale è indispensabile: dal cambiamento climatico al futuro delle tecnologie».

Conclude con un richiamo a Winston Churchill, su quali fossero i tre requisiti fondamentali per fare politica estera: «Studiare la storia. Studiare la storia. Studiare la storia». E con una riflessione sul ruolo dell’America: «Le condizioni per una nostra leadership mondiale si sono deteriorate, in particolare per la diffusione delle armi nucleari. Più che mai, oggi occorre essere creativi».

[di Federico Rampini – tratto da Corriere della Sera – foto EPA/Andreas Gebert]