29 Aprile 2024
Words

Israele-Palestina: la storia sintetizzata perbene

Perché non esiste uno Stato palestinese? È una domanda che si pongono in molti, mentre Israele continua la guerra contro Hamas nella striscia di Gaza, in risposta all’attacco senza precedenti lanciato il 7 ottobre contro lo Stato ebraico dai militanti del gruppo fondamentalista islamico, inserito da Stati Uniti e Unione Europea nella lista delle organizzazioni terroristiche. Una frequente risposta è che i palestinesi non hanno uno Stato perché Israele glielo ha sottratto, glielo ha negato o gli ha impedito di costruirne uno: ma è una risposta inesatta e incompleta, sebbene l’israeliano Nobel per la pace Shimon Peres riconoscesse che i palestinesi sono “il peccato originale” di Israele, perché c’era già anche un altro popolo nella terra a cui fanno ritorno i sionisti. La storia di ebrei ed arabi nel territorio compreso fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo conduce a una risposta assai più lunga e complessa. Ecco una scheda per riassumerla.

Regno d’Israele
È il regno che con varie denominazioni esiste per tre secoli su parte degli odierni territori di Israele, Giordania e Siria tra il 1030 e 722 avanti Cristo, dopodiché viene invaso e conquistato via via da assiri, babilonesi, persiani e greci, pur mantenendo nella regione una popolazione prevalentemente ebraica.

Impero Romano
I romani cominciano ad arrivare nella regione intorno al 130 avanti Cristo e la conquistano definitivamente nel 63 avanti Cristo, scontrandosi più volte con ribellioni delle tribù israelitiche locali. Dopo la terza insurrezione o guerra giudaica, che si conclude nel 132 dopo Cristo, i Romani cambiano nome alla regione, ribattezzandola Siria Palestina, più tardi abbreviato in Palestina.

Impero Bizantino e Califfato arabo
Con il declino dell’Impero Romano, alla fine del quarto secolo dopo Cristo la Palestina passa dapprima sotto il controllo dell’Impero Bizantino e poi nel settimo secolo viene conquistata dal Califfato arabo, che, dopo la fondazione della religione musulmana da parte di Maometto, si estende gradualmente in gran parte del Medio Oriente e in Africa del Nord. Anche sotto i califfi, tuttavia, agli ebrei è permesso di continuare a vivere a Gerusalemme: anzi, quando la Città Santa cambia più volte di mano fra arabi e cristiani all’epoca delle Crociate, i musulmani trattano gli ebrei molto meglio dei cristiani.

Impero ottomano
Dal 1517 al 1922, per quattro secoli la terra che oggi comprende lo Stato di Israele, la striscia di Gaza e la Cisgiordania appartiene all’Impero ottomano, noto anche come impero turco: un impero transcontinentale, multietnico e multireligioso che al suo apice domina buona parte dell’Europa sud-orientale, del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, avendo come capitale Costantinopoli, la Istanbul di oggi. Ne fanno parte svariati degli odierni Paesi arabi, tra cui Iraq, Siria, Libano, Giordania, Arabia Saudita, Egitto e appunto la Palestina della precedente epoca romana, dove in questi quattrocento anni di dominazione turca convivono arabi ed ebrei (i turchi, pur di religione musulmana, non sono di etnia araba). Nel 1896, quando un giornalista viennese di nome Theodore Herzl concepisce il sionismo, dal nome del monte Sion di Gerusalemme, immaginando come unica soluzione possibile a due millenni di persecuzioni antisemite uno Stato ebraico nella terra del Regno di Israele, in Palestina vivono 30 mila ebrei, per lo più a Gerusalemme, dove costituiscono la maggioranza della popolazione, e 500 mila arabi, per lo più pastori nomadi o agricoltori, sparsi tra piccole città e villaggi.

I primi a formulare il progetto di un proprio Stato in Palestina, lo Stato di Israele, sono dunque gli ebrei. Non sottoposto alle stesse persecuzioni religiose all’interno dell’Impero Ottomano, che è anch’esso di religione islamica, il nazionalismo arabo si sviluppa più lentamente, dapprima con l’idea di una “madre patria” che non coincide necessariamente con la creazione di uno Stato, bensì è incentrata su valori culturali, linguistici e spirituali.

Soltanto nel 1911 intellettuali e politici arabi da tutto il Medio Oriente (o Levante com’era allora chiamato) formano a Parigi un movimento espressamente nazionalistico, chiamato al Fatah, con l’obiettivo di “sollevare il livello della nazione araba al livello delle moderne nazioni”: il progetto originale è ottenere crescente autonomia dall’Impero ottomano fino a creare in futuro una grande nazione unita fra tutti i popoli arabi di questi immensi territori, come al tempo del Califfato.

Il “mandato” britannico sulla Palestina
L’aspirazione araba a formare uno Stato nazione viene utilizzata dal governo britannico nella Prima guerra mondiale per fare degli arabi i propri alleati contro l’Impero ottomano, che è invece schierato con Germania e Impero austro-ungarico contro appunto Regno Unito, Francia, Italia e più tardi Stati Uniti. Un ufficiale dell’esercito inglese, il colonnello T.E. Lawrence, destinato a passare alla storia con il soprannome di Lawrence d’Arabia, riesce a coalizzare diverse tribù arabe in una forza coerente, con la quale attacca i turchi e contribuisce in modo cruciale alla loro sconfitta su questo fronte della guerra. In cambio, Londra promette agli arabi che il loro desiderio di una grande nazione araba indipendente verrà esaudito.

Ma sullo sfondo del conflitto succedono varie cose. Nel 1916 Francia e Regno Unito firmano un accordo segreto, con il sostegno di Russia e regno d’Italia, per spartirsi “zone d’influenza” in Medio Oriente dopo la guerra. L’accordo, noto come Sykes-Picot dal nome dei ministri degli Esteri di Londra e Parigi che lo firmano, assegna agli inglesi la Palestina, la Giordania e l’Iraq, ai francesi la Siria, il Libano e parte della Turchia. Se guardando i confini odierni tra Siria e Iraq o altri Stati mediorientali si è indotti a pensare che sembrano tracciati con una matita e un righello tanto sono dritte quelle frontiere nel deserto è perché, per l’appunto, furono arbitrariamente tracciati dai ministri Sykes e Picot con una matita e un righello.

L’anno seguente, nel 1917, un nuovo ministro degli Esteri britannico, lord Alfred Balfour, emette una dichiarazione, che verrà per sempre ricordata con il suo nome, con la quale riconosce il diritto a un “focolare nazionale ebraico” in Palestina, pur senza che questo comprometta i diritti degli arabi nella regione: vent’anni dopo la nascita del sionismo, che ha messo in moto l’immigrazione ebraica in Palestina, è un passo fondamentale verso l’idea che in quella terra possa nascere un giorno una nazione degli ebrei. Ma lord Balfour ha messo in conto anche i diritti degli arabi. E per un po’ sembra che possano essere esauditi, tanto è vero che nel 1919 un arabo e un ebreo, l’emiro Feisal ibn al Hussein al-Hashemi e il leader sionista Chaim Weizman, presidente del Congresso Sionista Mondiale, firmano una dichiarazione congiunta che riconosce i diritti di entrambi i popoli, compresa la facilitazione di tutte le misure per “incoraggiare e stimolare l’immigrazione su larga scala degli ebrei in Palestina”.
A mano a mano che questa immigrazione cresce, perché sempre più ebrei cercano rifugio in Palestina acquistando terreni con i soldi del Fondo Mondiale Ebraico e dell’Agenzia Ebraica, l’armonia tra i due popoli vacilla. All’inizio si tratta di piccoli dissidi, ruberie di bestiame, furti di raccolto. Poi si moltiplicano le aggressioni reciproche, le violenze e infine anche i morti. Dal 1922, quando la Palestina diventa di fatto una colonia britannica, il governo di Londra si ritrova così con un problema di non facile soluzione.
Il Regno Unito pensa di risolverlo creando il regno di Transgiordania, antesignano dell’odierno regno di Giordania, un vasto territorio che lambisce le due rive del fiume Giordano e in cui insedia una dinastia di arabi suoi alleasti, gli hashemiti, da cui nasceranno re Hussein di Giordania e suo figlio Abdallah, attuale re di Giordania: il progetto del “focolare nazionale ebraico”, infatti, non viene esteso da Londra al regno di Transgiordania, che in un certo senso per gli inglesi è dunque la “nazione araba” indipendente promessa dal colonello Lawrence. La popolazione della Giordania odierna, 10 milioni di abitanti, in effetti è composta nella stragrande maggioranza da palestinesi, sebbene la famiglia reale appartenga alla minoranza beduina: ma la regina Rania, moglie di re Abdallah, è di etnia palestinese, per cui sono palestinesi al 50 per cento anche i suoi figli ed eredi al trono.

I due Stati dell’Onu
Nel 1947 le neonate Nazioni Unite approvano a maggioranza una risoluzione che suddivide i restanti territori della Palestina di epoca romana in due Stati: uno per gli ebrei e uno per gli arabi, che in quei territori vivono in crescente dissidio, fra massacri e violentissime ribellioni, di fatto una guerra civile. La risoluzione passa con 33 voti a favore (tra cui quelli di Usa e Urss, le superpotenze vincitrici della Seconda guerra mondiale), 13 contrari e 10 astenuti. Due motivi sono alla base della risoluzione: l’orrore internazionale per la scoperta dell’Olocausto, lo sterminio di sei milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti; e la constatazione che la violenza tra ebrei e arabi in Palestina sta diventando incontrollabile, riversandosi anche contro i militari britannici, che ancora controllano la regione come una colonia.
Va notato che il diritto degli arabi ad avere uno Stato in quel pezzo di terra viene ribadito dai vincitori della Seconda guerra mondiale, cioè da americani, russi e britannici, nonostante un leader arabo, il Gran Muftì di Gerusalemme, Haj Amin al-Hussayni, si fosse alleato con Hitler, incontrandolo personalmente a Berlino dove si era trasferito durante il conflitto, nella speranza che il nazismo liberasse gli arabi di Palestina di due nemici in colpo solo: gli ebrei e gli inglesi.
“Quando avremo vinto”, promette il Fuhrer al Muftì, “elimineremo gli ebrei dalla Palestina”. Hitler perde la guerra, il muftì fugge da Berlino e l’Onu adotta la salomonica soluzione di “due Stati per due popoli”.
In quel momento, quando l’Onu approva la storica risoluzione, nella Palestina britannica ci sono 630 mila ebrei e 1 milione e 300 mila arabi. L’Onu assegna la maggior parte del territorio allo Stato ebraico, 15 mila chilometri quadrati, ma prevedendo che al suo interno, accanto agli ebrei, viva una ampia minoranza araba (400 mila persone), mentre assegna 11 mila chilometri quadrati allo Stato arabo, con al suo interno una esigua minoranza ebraica (10 mila persone). Il piano non piace a nessuna delle due parti. Innanzi tutto, perché ciascuno Stato è spezzettato in varie parti senza contiguità territoriale. In secondo luogo, per le minoranze che ciascuno Stato deve inglobare. In terzo luogo, non piace agli ebrei perché li priva della Città Vecchia di Gerusalemme e dunque del loro luogo più santo: il Muro del Pianto, quello che resta del Tempio di re Salomone.
Ma soprattutto non piace agli arabi perché essi rifiutano l’idea di vivere accanto a uno Stato ebraico. Se l’Europa si sente in colpa per l’Olocausto, pensano gli arabi, perché devono essere loro a fare posto agli ebrei in Palestina? Ma dove potevano andare gli ebrei per sfuggire a secoli di antisemitismo, se non nella terra dei padri? Il risultato è che gli ebrei accettano la proposta: David Ben Gurion, il loro leader, è convinto che l’importante sia avere uno Stato, poi ci sarà eventualmente modo di ampliarlo e consolidarlo. Mentre gli arabi lo rifiutano, promettendo di “gettare a mare gli ebrei”.

Pochi mesi dopo, il 14 maggio 1948, Ben Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele e il giorno seguente gli eserciti di cinque Paesi arabi attaccano gli ebrei: ma sebbene più numerosi e teoricamente meglio armati, perdono la guerra, e gli sconfitti, come in tutte le guerre, ci perdono qualcosa. Israele si allarga infatti su confini più ampi di quelli previsti dalla risoluzione dell’Onu. Per di più, durante la guerra una parte della popolazione araba fugge davanti all’avanzare delle forze israeliane o viene deliberatamente espulsa dalle proprie case e dai propri villaggi. Una parte di loro però rimane in Israele: oggi gli arabo israeliani sono circa due milioni, un quinto della popolazione totale di Israele, hanno diritto di voto, sono rappresentati da partiti politici in parlamento (uno dei quali ha fatto parte della penultima coalizione di governo) e pur sentendosi per certi aspetti discriminati partecipano sotto molti aspetti alla vita attiva dello Stato ebraico, anche se non è loro permesso di servire nell’esercito.

Sotto Egitto e Giordania
Ciononostante, appena finita la guerra del 1948, uno Stato palestinese potrebbe sorgere lo stesso, sebbene più piccolo di quello disegnato dall’Onu: in Cisgiordania e a Gaza. Ma sono altri arabi a negarglielo. Infatti l’Egitto si prende la striscia di Gaza e la Giordania si prende la Cisgiordania, o se la riprende, in un certo senso, perché essa faceva parte dell’originario regno di Transgiordania concesso dagli inglesi alla dinastia hashemita dopo la Prima guerra mondiale.
I governi del Cairo e di Amman si tengono i due territori per quasi vent’anni, fino al 1967, e probabilmente avrebbero continuato a tenerseli, indifferenti a eventuali aspirazioni nazionali palestinesi, se non fosse che quell’anno egiziani e giordani, insieme a Siria e altri alleati, si preparano ad aggredire Israele per cercare di nuovo, come nel 1948, di “gettare a mare gli ebrei”. Solo che Israele, nel frattempo, si è militarmente rafforzata, la sua intelligence avverte che un attacco è imminente e lo Stato ebraico lancia un formidabile attacco preventivo, distruggendo a terra la quasi totalità dell’aviazione avversaria e sgominando il nemico in appena sei giorni.
Così verrà poi chiamata quella guerra dal suo comandante israeliano, il generale (e futuro primo ministro) Yitzhak Rabin: la guerra dei Sei giorni, con riferimento ai giorni della creazione della Terra secondo la Bibbia. Israele non lancia il suo attacco preventivo, o di autodifesa come lo definiscono alcuni, con il progetto specifico di conquistare Cisgiordania e Gaza, ma la disfatta araba è tale, l’avanzata ebraica così facile, che gli israeliani si ritrovano a conquistare tutta la Cisgiordania e Gaza, più le alture del Golan strappate alla Siria e la penisola del Sinai all’Egitto. Il prezzo più importante della loro vittoria è la Città Vecchia di Gerusalemme, o se vogliamo Gerusalemme Est: la millenaria capitale ebraica viene così riunificata sotto bandiera israeliana, incluso il Muro del Pianto.

L’Olp e le colonie ebraiche
Tre anni prima della guerra dei Sei Giorni, un gruppo di fedayyin (combattenti devoti) palestinesi forma l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), il cui obiettivo è la lotta armata per stabilire uno stato palestinese nell’intero territorio della Palestina britannica: in altre parole, l’obiettivo di fare scomparire Israele. Ben presto capeggiata da Yasser Arafat e catalogata a lungo da Israele e dall’Occidente come un gruppo terroristico, l’Olp lancia innumerevoli attacchi contro lo Stato ebraico e dovunque siano gli ebrei nel mondo, dirottando aerei e navi, facendo esplodere uffici, sedi di aziende pubbliche o private, sinagoghe.
L’organizzazione non ha vita facile nei rapporti con gli altri Stati arabi: in un primo tempo sceglie come base la Giordania, ma ne viene espulsa dopo una lotta armata contro le forze del regno hashemita; quindi trasferisce il proprio quartier generale in Libano, ma è costretta a lasciarlo per l’invasione israeliana, che vuole mettere fine agli attacchi provenienti dal Paese dei cedri (è nel corso di questa invasione che una milizia libanese alleata di Israele fa strage di civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Chatila vicino a Beirut); infine si trasferisce in Tunisia, da dove Arafat continua a dirigere il gruppo e gli attentati contro Israele. Spiccano fra queste operazioni il massacro di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972 e il dirottamento di un aereo pieno di ebrei a Entebbe, in Uganda, nel 1976.

Nel frattempo, dal 1977 il governo israeliano, fino ad allora praticamente da sempre in mano al partito laburista, passa nelle mani del Likud, il partito della destra israeliano, che aumenta gli insediamenti ebraici nei Territori Occupati, come l’Onu definisce Cisgiordania e Gaza, conquistate nella guerra del 1967: l’espansione di queste “colonie”, come sono anche chiamate, ha inizialmente motivazioni legate alla sicurezza e al controllo di Cisgiordania e Gaza, ma di fatto porta via sempre più terra e risorse agli arabi. Per il movimento dei coloni, anche la Cisgiordania, da loro chiamata Giudea e Samaria come nell’Antico Testamento, fa parte dell’Israele biblica e dovrebbe venire annessa allo Stato ebraico.

I negoziati di pace e l’Anp
A dispetto di occasioni mancate come il rifiuto dello Stato previsto dall’Onu, di guerre perdute dal 1948 in poi e di una lunga stagione di terrorismo, i palestinesi hanno lo stesso varie occasioni di formare uno Stato, ma nessuna arriva al traguardo. La pace con l’Egitto, firmata nel 1979, impegna il primo ministro israeliano Menachem Begin a dare “un’autonomia” ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, ma l’assassinio del presidente egiziano Anwar al Sadat da parte di un estremista egiziano rallenta il progetto per un decennio. Il negoziato avviato dal premier israeliano laburista Yitzhak Rabin nel ’93, con la storica stretta di mano ad Arafat alla Casa Bianca, si propone di creare uno Stato palestinese nel giro di cinque anni, cioè entro il ’98: il primo passo, nel ’94, è la consegna all’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), come viene chiamato il governo palestinese, del controllo totale sul 20 per cento della Cisgiordania e su parte di Gaza, dotandola di polizia e forze di sicurezza armate che collaborano con Israele nel lottare contro il terrorismo di gruppi palestinesi radicali contrari al progetto di “due Stati che vivano in reciproca sicurezza uno accanto all’altro”.
Dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin nel ’95 da parte di un estremista israeliano arriva al potere Benjamin Netanyahu, nuovo capo del Likud, ma anche lui, pur criticando come eccessive le concessioni di Rabin ai palestinesi, firma due accordi con Arafat per fare progredire il processo di pace. Netanyahu perde le successive elezioni e sale al governo un nuovo premier laburista, Ehud Barak.

I mancati accordi di Camp David nel 2000
Barak dà maggior impeto al negoziato con Arafat. E accetta l’invito del presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, per partecipare in USA al summit di Camp David del 2000. Barak e Arafat staranno insieme a Clinton dall’11 al 24 luglio, cercando una soluzione all’eterno conflitto. Alla fine, Barak offre al capo dell’Olp uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, con Gerusalemme Est come capitale. Inoltre aggiunse la possibilità del rientro in Palestina per un limitato numero di profughi arabi e un indennizzo per gli altri che non sarebbero rientrati. Un’offerta enorme di Israele che non era mai stata fatta prima con questa larghezza di concessioni. Inspiegabilmente Arafat si impuntò sul numero dei profughi palestinesi da far rientrare e respinse la proposta senza offrirne una alternativa.
Questo rifiuto palestinese sancì per molti osservatori nel Mondo la fine di ogni possibile trattativa. E per molti, Camp David 2000, fu ricordato come il più grande errore della storia del popolo palestinese.

Il nuovo millennio
Va al potere di nuovo un premier del Likud, Ariel Sharon, che nel 2004 si ritira unilateralmente da Gaza, ordinando al suo esercito di smantellare con la forza 21 insediamenti ebraici nella Striscia e lasciandola completamente ai palestinesi. Generale ribelle che con la sua insubordinazione e il suo coraggio capovolge le sorti della guerra dello Yom Kippur nel ’73, visto da molti come responsabile morale delle stragi di Sabra e Chatila nei campi profughi palestinesi in Libano nel 1982, Sharon è proprietario di una fattoria nel Sud di Israele. Abituato a trattare con pastori beduini e agricoltori arabi sostiene di essere l’unico in grado di capire la mentalità araba e il solo che può concludere un accordo con loro. Le sue posizioni lo portano a lasciare il Likud e a formare un nuovo partito di centro, nel quale, lasciando il Labour, entra anche Shimon Peres, l’ex-premier ed ex-ministro degli Esteri che più si è battuto per la pace. Ma nel 2006 Sharon viene colpito da un ictus che lo lascia mentalmente incapacitato fino alla morte e anche questa opportunità svanisce.
Dopo di lui ci prova il suo successore Ehud Olmert, con un piano che secondo alcuni è perfino migliore e più generoso verso i palestinesi di quello offerto da Barak a Camp David nel 2000: ma Olmert è costretto a dimettersi per accuse di corruzione e al potere torna Netanyahu.

Nel 2009, sotto pressioni del presidente americano Barack Obama, Netanyahu accetta l’idea di uno Stato palestinese, sebbene demilitarizzato e senza Gerusalemme Est come capitale, e congela l’espansione degli insediamenti nei Territori Occupati: ma tutto si blocca per l’ennesima volta per la ripresa degli attentati terroristici da parte di gruppi islamici radicali, in particolare di Hamas, che nel 2006 ha vinto le elezioni legislative palestinesi e, dopo uno scontro armato con l’Autorità Nazionale Palestinese, ha preso il potere a Gaza.
Da allora le “guerre di Gaza” si susseguono annualmente, con lanci di razzi palestinese e rappresaglie aeree o talvolta incursioni israeliane, ma nel tentativo di stabilizzare la Striscia decine di migliaia di palestinesi ricevono da Israele un permesso di lavoro per lasciarla quotidianamente, andare a lavorare come pendolari a Tel Aviv o in altre città israeliane e rientrare a Gaza la sera. Una fonte cruciale di sostentamento economico per Gaza che, nei momenti di pace, raggiunge il numero di 100 mila pendolari palestinesi al giorno.

Dopo il 7 ottobre 2023
Adesso tutto è precipitato, con i 1300 morti in un giorno provocati da Hamas con l’attacco del 7 ottobre e con la risposta militare israeliana che si prefigge di debellare completamente Hamas dalla striscia di Gaza. Mentre in Cisgiordania il prestigio dell’Autorità Nazionale Palestinese, guidata da Abu Mazen, 88 anni, al potere dal 2004 quando morì Arafat, è caduto sempre più in basso, tra senilità, accuse di complicità con Israele e ombre di corruzione.

Da Begin nel 1979 ad oggi praticamente tutti i premier israeliani hanno provato a diverse riprese e con diverso impegno a concludere accordi che dessero uno Stato ai palestinesi. E sarebbe stato costretto a riprovarci anche Netanyahu – sebbene sia stato alla guida del governo più di estrema destra della storia di Israele che ha dato completamente via libera agli insediamenti ebraici – o un altro premier al suo posto, se fosse andato in porto il piano di Joe Biden per una pace fra Israele e Arabia Saudita, che comprendeva passi concreti per rilanciare il negoziato con l’obiettivo di creare uno Stato palestinese: ma l’attacco di Hamas è stato lanciato anche per ostacolare questo ennesimo tentativo di convivenza tra arabi ed ebrei, e potrebbe essere riuscito perlomeno a rinviarlo.

[di Enrico Franceschini – da La Repubblica, con contributi ripresi da wikipedia e aggiunte di redazione alleo]