27 Luglio 2024
Words

Internet e il potere

In tutta l’Africa, ma anche in altri Paesi o aree dell’ormai cosiddetto “Terzo Mondo” (o, usando l’ipocrisia linguistica dei banchieri internazionali, in tutti i “Paesi in Via di Sviluppo”), ormai l’unico modo efficace di controllare il processo politico è quello di interrompere le comunicazioni via Internet. Se poi andate a vedere date e periodi, vi accorgerete che i picchi di chiusura dei provider locali o nazionali del Web, da parte dei governi, corrispondono sia alle crisi politiche interne sia ai momenti di maggiore espansione delle migrazioni da quelle aree verso Algeria e Libia, i paesi ancora considerati “ricchi” dagli africani subsahariani. E in effetti, una ricerca della Ebert Stiftung sull’economia libica, poco prima delle operazioni francesi contro Gheddafi, mostrava una economia e una società con redditi ormai europei, piuttosto che africani. Poi, la voglia di Sarkozy di prendersi l’ENI ha creato lo scompiglio. Ma ricordiamoci che, ancora oggi, solo il 20% dei migranti dichiara, già in Africa, di voler andare in Europa o, più specificamente, in Italia.

D’altra parte, i contrabbandieri di uomini che operano nell’Africa subsahariana e sulle coste libico-tunisine utilizzano oggi soprattutto i social media, oltre al vecchio e sempre ottimo sistema del passaparola. Già nello scorso anno, almeno un terzo della popolazione mondiale era iscritta a Facebook, e il 68% di questa platea globale ha meno di 35 anni. L’89% dei migranti che entrano in EU dalle coste libiche non ha più di 40 anni. E sono quasi tutti proprietari di un account di “Facebook”. Sono infatti gli stessi contrabbandieri di esseri umani ad aprire il loro account su Facebook e a accendere canali di WhatsApp, che ha peraltro anche il pregio di essere accettabilmente crittografia. Per soprammercato, i contrabbandieri aggiungono foto riguardanti i preparativi del viaggio, immagini e passaporti di quelli che hanno già pagato la quota, modi di porsi in contatto con loro, nomi di intermediari affidabili. Ma, dato che il prossimo fenomeno politico globale che vedremo si chiamerà sicuramente “la Fine dello Stato”, nessuna Nazione ha oggi le palle sufficienti per chiedere a Zuckerberg di smetterla, magari minacciandolo di azioni legali per recuperare i soldi evasi al Fisco dei vari Paesi dove l’inutile “faccialibro” opera. O magari di regalargli una bella cravatta di Talarico, minaccia ben più pesante per l’eterno ragazzo di college. Se il provider africano di faccialibro non vuole quindi adattarsi ai nuovi ordini, dovrebbe saltare. Nel senso dell’esplosivo. Lo fanno le grandi imprese utilizzando anche il terrorismo islamico, che delimita i nuovi appezzamenti di valorizzazione economica per il petrolio e per le altre materie prime, non vedo perché non potrebbero farlo anche gli Stati sovrani. Ma io sono un uomo dell’ottocento, non sono un figlio della “società liquida” basata su fluidi spesso puzzolenti. Sarebbe anche facile, l’azione paramilitare, ma la religione attuale del liberalismo globale, che presuppone un capitalismo mondiale di nuovissimi robber barons, come ai tempi della Compagnia delle Indie, impedisce agli Stati di esercitare anche i loro minimi diritti. Diritti che, peraltro, sono sanciti democraticamente dal voto, mentre io, non essendo titolare di azioni di “faccialibro”, non conto niente né lì né altrove. Stiamo ritornando al voto censitario, senza accorgercene.

Ma parliamo ancora dell’interruttore di Internet in Africa, che è anche il pulsante che regola la sua evoluzione economica e politica. Naturalmente, qui la prima fesseria l’hanno fatta proprio gli occidentali: è stata nella fase di preparazione delle “Primavere Arabe” in Egitto e nel Maghreb che la Rete è cominciata a mancare a lungo e per volontà dei politici locali. Nel gennaio 2011, la reti Web egiziane sono infatti sparite, da un momento all’altro, da tutti gli indicatori dei Provider mondiali. Subito dopo, guarda caso, accade lo stesso in Bahrein, in Libia e in Siria. Ed ecco quindi che diventa visibile e comprensibile la mappa delle azioni che, infatti, furono intraprese allora per proteggere o destabilizzare quei regimi. La Rete funzionò allora come agente provocatore e attore politico: sempre non a caso, tra gli organizzatori di Piazza Tahrir al Cairo vi era il giovanissimo responsabile di Google in Egitto.

I criteri per identificare un pericolo concreto di blocco della rete, ma politicamente diretto, sono: a) il fatto che un Paese abbia solo uno o due provider alle sue frontiere, il caso peggiore e“africano”, b) comunque con meno di 10 provider ai confini un Paese è comunque a “grave rischio” di interruzione informatica” e infine c) il rischio è classificato come “basso” quando ai confini operano tra i 10 e i 40 provider internazionalmente riconosciuti.

All’epoca delle prime classificazioni di questo genere, nel 2013, venivano già contati ben 223 Paesi ad alto rischio di interruzione informatica. Poco dopo, nel 2014, gli analisti della Rete globale puntavano il dito contro i nuovi Paesi a rischio di rottura della World Wide Web. E anche qui c’era da pensare: i nuovi nodi deboli della rete mondiale erano diventati la Siria, con la lunga preparazione della sua “primavera”, che è andata fortunatamente a farsi friggere con l’intervento russo, proprio nel 2014, poi il Venezuela, con la destabilizzazione poliennale del governo Maduro e poi ancora, manco a farlo apposta, eccoci con l’Ucraina. L’Iraq, poi, altro cuore del Grande Medio Oriente, pur avendo già molte connessioni con la rete, soprattutto dopo il 2012, si basava soprattutto su una vecchia e unica connessione in fibra, sistematicamente chiusa dal governo di Baghdad, per evitare la falsificazione dei risultati degli esami studenteschi, le proteste di piazza, la distruzione della rete interna al cosiddetto “califfato”. Solo il Kurdistan, a Nord, era del tutto autonomo dal traffico internet iraqeno. E pensare che vi chiederete ancora perché sono stati i Curdi a riconquistare Mosul dalle truppe dell’Isis-Daesh. Vi è anche il problema della rottura, anche dolosa, dei cavi sottomarini che portano il segnale di Internet, come è già accaduto più volte in Madagascar, verso le Isole Marshall, vicino alla Libia, sempre guarda caso, con l’Azerbaigian, grande potenza centroasiatica del gas naturale (ma tu pensa la casualità) poi con l’Algeria, oppure nell’area della Polinesia Francese, zona riservata per attività militari e informative coperte da parte di Parigi e infine, e anche qui viene da dire “guarda caso”, vicino alla Colombia.

Dopo le infauste “primavere arabe”, le operazioni di interruzione della rete si sono concentrate quindi in un’area ad altissimo rischio anche per la UE, ovvero il Sahel e tutta l’Africa Subsahariana. Dopo le “primavere”, si sta programmando infatti lo spostamento in EU di almeno un milione di giovani africani, secondo gli ultimi dati pubblicati dal Guardian. Ma molto conta anche la politica interna dei vari stati africani, tutti ormai, anche per la nostra idiozia occidentale, del tutto catalogabili come “stati falliti”. Nel Gennaio 2015, per esempio, venne chiusa la Rete a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, quando vi furono violente manifestazioni contro l’ormai giubilato presidente Laurent Kabila, che ormai non serviva più né ai francesi né agli americani, mentre i cinesi avevano notificato che, a loro, della sopravvivenza di Kabila a Kinshasa, sopravvivenza anche fisica, non fregava assolutamente niente. Lo stesso accadde nel dicembre 2016, per bloccare le manifestazioni contro Kabila, che voleva rimanere al suo posto dopo la scadenza naturale dei due anni.

Nel settembre 2016, il Gabon ha avuto un’interruzione dei contatti internet durata 23 giorni, proprio quando si contavano i risultati di una elezione presidenziale che permise al candidato di allora, Ali Bongo Ondimba, di rimanere al potere per una manciata di voti. Il Gabon è sulla costa atlantica dell’Africa e usa, fatto non trascurabile, il Franco CFA, la moneta francese che Parigi ha costruito per le sue ex-colonie, una divisa a cambio fisso con l’Euro che, quindi, paghiamo noi, non agli africani, ma ai francesi… Anche in Gambia la Rete è stata chiusa, alla fine del Novembre 2016, sempre durante le elezioni presidenziali. In Camerun, il Web è stato bloccato nelle aree anglofone del Paese a partire dal Gennaio 2017, ma il governo ha sospeso Internet anche nella aree Sud e Nordoccidentali, in coincidenza di manifestazioni di piazza e di iniziative autonome del “popolo della rete” camerunese. Sempre in Togo, nella primavera del 2017, la rete è stata fortemente limitata per contrastare le manifestazioni contro Faure Gnassingbe, che si era seduto sul trono presidenziale del padre subito dopo la sua morte, nel 2005. E così, quasi senza volerlo, abbiamo disegnato la cartina delle prossime destabilizzazioni in Africa.

Ma quanto costa chiudere temporaneamente la Rete in un Paese? Tanto. In Egitto, nel 2011, la preparazione informatica della “primavera”, con il suo blocco del web di cinque giorni solamente, è costata al Paese del Nilo oltre 90 milioni di Usd. Ogni giorno, i danni diretti e indiretti apportati dal blocco della Rete costavano in media 18 milioni ogni 24 ore. E qui non teniamo conto dei danni indiretti. Secondo alcuni studi, poi, l’impatto della chiusura del Web vale 23,6 milioni di Usd per ogni 10 milioni di popolazione. Nel 2016, il blocco del World Wide Web in tutto il mondo è costato almeno 2,4 miliardi di Usd, in tutto l’anno. Ecco quindi come e con che mezzi si sta ridisegnando la cartina dell’Africa e dei punti critici del mondo. Non si tratta di “continenti” o “aree” “dimenticate”, tutt’altro, niente è più in cima ai pensieri dei Decisori globali che la “riforma” dell’Africa o la destabilizzazione delle aree di confine tra Federazione Russa e UE, o tra Cina e Asia Centrale.