3 Maggio 2024
Words

L’egemonia monca di Giorgia Meloni

Intanto: quello di “egemonia” non è un concetto gramsciano. È addirittura imbevuto di zarismo. Siamo alla fine del 1800 e i marxisti russi si erano posti un interrogativo: politica o economia? Per combattere lo zar, ne conclusero, era necessaria la lotta politica (e quindi culturale) che la classe operaia avrebbe dovuto combattere sul terreno dell’egemonia rispetto alle altre classi sociali. Insomma: supremazia della cultura e supremazia del proletariato. Quest’ultimo soggetto politico avrebbe dovuto esercitare una doppia preminenza: a livello simbolico e anche a livello sociale. “Cultura e società” oltre a essere il titolo dei Saggi di teoria critica (1933-1965) pubblicati da Herbert Marcuse nel 1969, era anche, nel caso in questione, l’esatta ripartizione dell’impegno dell’egemonia, in una parola: egemonia intellettuale.
Scrive Luciano Gruppi nel volume Il concetto di egemonia in Gramsci (Editori Riuniti, Roma, 1972): “È tale nesso di teoria e pratica quello  che consente a Gramsci di affermare che la teoria e la realizzazione dell’egemonia del proletariato, cioè della direzione e del dominio, della dittatura del proletariato, ha un grande valore filosofico, perché l’egemonia del proletariato rappresenta la trasformazione, la costruzione di una nuova società, di una nuova struttura economica, di una nuova organizzazione politica, e anche di un nuovo orientamento ideale e culturale”.
E continua: “Come tale, essa non ha conseguenze soltanto al livello materiale dell’economia o al livello della politica, ma al livello della morale, della conoscenza, della filosofia”. Dunque per Gramsci egemonia vuole dire: direzione, dominio e dittatura. Dunque anche in questo caso abbiamo a che fare con una “supremazia” di tipo culturale. Carattere distintivo dell’egemonia gramsciana è quello di essere, essa, basata sul consenso dei subalterni, anziché sulla forza (che però non scompare, ma viene contenuta e limitata). Pertanto, il contenuto concettuale prevalente del concetto d’egemonia è quello della direzione col consenso dei subordinati.

Invece, Giorgia Meloni che cosa sta facendo? Intanto, stando a quello che si legge sui giornali: confonde politica e potere, nel pensiero di Gramsci primariamente. Per seconda cosa lamenta/depreca/insegue/aupica/demonizza una “presunta” egemonia culturale della sinistra.
Scrive Beppe Corlito nel brillante articolo Le ambizioni egemoniche del governo di destra(apparo su «Ln» il 27 ottbre 2023): “Oggi possiamo dire che il governo più a destra della storia repubblicana ha intenti egemonici nel senso di Gramsci. L’esercizio del potere non può solo basarsi sul monopolio statale della forza (e questo governo dal primo decreto anti-rave ha collezionato molti provvedimenti repressivi soprattutto nei confronti dei migranti), ma deve organizzare il consenso popolare intorno ai propri obbiettivi”.
Recentemente Marcello Veneziani, intellettuale irregolare della destra, in un articolo del 5 ottobre 2023 sul suo blog (Dove è finita la filosofia italiana?) ha rivendicato questa idea di Gramsci alla costruzione del consenso in epoca fascista. Scrive: “Più nascosto ma più profondo è il debito di Gramsci verso Gentile, indagato acutamente da Del Noce: è un legame all’insegna del comune interventismo culturale, del nesso mazziniano tra pensiero e azione che rivive nell’attualismo di Gentile come nella filosofia della prassi di Gramsci; un ripensamento nazional-popolare del pensiero italiano e del progetto di un’egemonia culturale che Gramsci trae da Lenin ma in Italia ha l’esempio della politica culturale di Gentile e di Bottai nel regime fascista”.
Il pensiero è ardito da far accapponare la pelle perché ascrive questo concetto di “egemonia”, che è sicuramente gramsciano, a due opposte genealogie: quella leninista della conquista della maggioranza, che ha un suo fondamento democratico, e quella fascista, che costruì il consenso attraverso la organizzazione corporativa della società”.
Per poter esercitare l’«egemonia culturale» che dice, la Meloni ha dunque una strada sola: vedersela col consenso.
Bisogna costruire il consenso? Oppure occorre partire dal consenso?  Dall’alto o dal basso? Il potere che costruisce il suo consenso è lo stesso potere che, invece, parte da un consenso già acclarato?
Dunque, le “nomine” – non ultima quella di Adriano Monti Buzzetti Colella, monarchico, al posto di Marino Sinibaldi alla guida del Centro per il libro e per la letteratura – che partono dall’alto sono in grado di condizionare tutto quel consenso che, abbiamo detto, si svolge, si avvolge e si volge intorno a temi prevalentemente culturali – se non intellettuali tout court.
Insomma: puoi imporre una visione intellettuale (e quindi educativa, simbolica, morale) dall’alto o essa deve nascere dal concreto vivere della gente?
Se Giorgia Meloni dice che l’Ulisse di James Joyce è bello, automaticamente il giorno dopo ci sono frotte di persone che fanno la fila nelle libreria per acquistare l’Ulisse di Joyce? Credo di no. Quindi?

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.