26 Aprile 2024
Movie

“La memoria dell’acqua” (“El boton de nàcar” – P.Guzmàn, CHI-FRA-ESP 2015)

Incuriosito dal titolo ho verificato, coi mezzi facili che oggi ci regala internet, che l’ipotesi che l’acqua conservi a seguito di processi molecolari memoria degli “eventi” che si verificano dentro di essa  è stata avanzata alcuni decenni fa dal biochimico francese Jacques Benveniste, ma certo mai dimostrata scientificamente. Non entro in dettagli giacché non farei altro che ripetere cose di cui non capisco. Patricio Guzmàn (nato nel 1941, incarcerato dal regime del generale Augusto Pinochet) riprende però questa idea per un documentario suggestivo e a tratti commovente (vincitore dell’Orso d’Argento come migliore sceneggiatura al 65° Festival berlinese), ambientato nella cornice della geografia umana e fisica della Patagonia. Qui i ghiacciai che si sciolgono lentamente nell’acqua possono costituire l’unico elemento acustico nel silenzio più assoluto. E  il film integra questi paesaggi marini (del Cile, con i suoi 2700 chilometri di coste) e terrestri, con l’astrofisica, la storia sociale, l’antropologia, la linguistica, la politica. Non di tutte queste implicazioni si potrà dar conto. L’acqua è comunque la vera protagonista, il principio di vita dell’universo. Non posso non approfittarne per dire che Guzmàn avrebbe potuto richiamare il grande Talete di Mileto (Ionia), il filosofo presocratico (VII-VI a.C.) che ne fece, dell’acqua (hydor), l’archè nella sua interpretazione dell’ordine cosmico e l’origine delle cose, come qualunque diligente studente del bistrattato liceo classico italiano (non tocchiamone più di tanto gli assetti attuali, per piacere, e soprattutto, giù le mani dal greco… ) non dimenticherà mai.

Se l’acqua ha memoria, dice Guzmàn, può forse anche trasmetterla e così facendo rendere giustizia ad almeno due fenomeni storici: la colonizzazione delle popolazioni indigene del Cile meridionale, gli oppositori del regime di Pinochet precipitati nell’Oceano dall’alto del cielo, dopo essere stati sottoposti a torture orribili al chiuso di famigerate strutture come Villa Grimaldi. Nel primo caso, l’habitat marino ha garantito per secoli la vita dei locali, costretti sin da piccoli ad imparare a nuotare sott’acqua per trarre alimento dalle sue risorse,  o a remare con tecniche che consentivano alle loro agili imbarcazioni lunghissime traversate; nel secondo, il mare come sepolcro, e i fondali come testimoni della violenza di un regime e di molti desaparecidos che nel loro anonimato non sono però veramente tali, se non li si dimentica. Primi piani dei volti segnati di donne e uomini rari, poche decine, sopravvissuti come i nativi Selknams (una di loro non ha dubbi: non si sente cilena), che, intervistati, regalano suoni bellissimi quando traducono vocaboli spagnoli o raccontano nella loro lingua memorie del passato. Impressionanti le immagini degli scheletri o dei pezzi di metallo ai quali erano legate le vittime della dittatura fascista destinate ad essere fatte annegare, teschi che sembrano stagliarsi informi, sembianze facciali solo umanoidi ormai, dagli aggregati di minerali rocciosi, della vegetazione oceanica. Tra i fluidi, le incrostazioni rugginose, un simbolico bottone di madreperla. Non a caso il titolo originale del film è El boton de nacar. Con un bottone nel 1830 era stato retribuito e convinto a trasferirsi per motivi di ricerca antropologica ante litteram in Europa un indigeno, che rimarrà noto con il nome inglese di Jemmy Button. Al suo ritorno nella terra natale non riuscirà più ad ambientarsi, in qualche modo imprigionato e isolato dalla civiltà che ne aveva voluto fare una cavia.

Commoventi, le fotografie di abitanti di queste aree che dall’Ottocento cominciarono a essere occupate, tristi e tutti uguali nelle larghe vesti si sartoria occidentale o di stracci, coperti dalle nudità che erano abituati a mostrare e a dipingere per tradizioni ancestrali, etnologiche e religiose (Allende aveva un progetto per tutelarli, in qualche modo, ci segnala Guzmàn). «Non riesco a distaccarmi da quel momento. E’ come se avessi visto la mia casa andare a fuoco durante l’infanzia, e tutte le mie favole, i giocattoli, gli oggetti, i fumetti fossero bruciati davanti ai miei occhi…In Cile, quando chiedo ai miei amici se ricordano quegli avvenimenti, molti mi dicono che ormai è acqua passata, che è successo molto tempo fa. Per me, invece, il tempo non è passato».

La memoria dell’acqua costituisce la seconda parte di una trilogia dedicata alla “Battaglia del Cile”. Il confronto tra le vicende degli autoctoni oppressi e cancellati dai conquistatori e le vicende dell’ultimo quarto del XX secolo ne sono il filo rosso. Il regista è cileno e la sua prospettiva è degna del più grande rispetto. Lo spettatore ricordi, tuttavia, che genocidi ed eccidi, analoghi, ancora più tragici, sono accaduti e continuano ad accadere in efferati regimi di tutt’altra ideologia. Guzmàn sarà d’accordo…

Giovanni A. Cecconi

Professore di storia romana e di altri insegnamenti di antichistica all'università di Firenze. Da sempre appassionato di cinema, è da molti anni attivo come blogger su alleo.it per recensioni, riflessioni, schede informative, e ricordi di attori e registi. È stato collaboratore di Agenzia Radicale online e di Blog Taormina. Ama il calcio, si occupa di politica e gioca a scacchi, praticati (un tempo lontano) a livello agonistico, col titolo di Maestro FIDE.