6 Dicembre 2024
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Mircea Cărtărescu, Abbacinante. Il corpo, Voland 2016, pag. 576, € 25,00.

Per chi non hai mai letto Cărtărescu (Bucarest 1956), addentrarsi nel suo romanzo Abbacinante. Il corpo, premio Von Rezzori 2016, è inizialmente un’operazione complessa, soprattutto se si cerca un orientamento spazio temporale ed una consequenzialità. Ma se ci si lascia trascinare dalla sua mente immaginifica e fervida, allora si stabilisce il contatto, si colgono simboli, si concretizzano immagini, ma soprattutto si vivono emozioni e suggestioni, come quando si scende dentro un linguaggio poetico.

Bucarest è il centro del narrare, Amsterdam compare inattesa. Il tempo non ha sponde e si scende nel passato lontano, si sovrappongono esistenze in epoche diverse che sembrano travasarsi  l’una nell’altra, per cui si conosce “Vasile, il già Vasili, l’adolescente senz’ombra, il contadinello spaventato e affascinato dalle ali di Maria, il soldato e poi il caporale indefesso nell’esercito e in fine il capitano dei pompieri”.

Al centro rimane l’infanzia di Mircea negli anni ’60, vissuta con i genitori in varie zone di Bucarest, un bambino che ha terrore del vuoto e degli spazi immensi – così appaiono allora alla sua percezione – ma che osserva la realtà con scrupolo scientifico, entrando dentro le sue cellule.  Così nel romanzo tutto è osservato secondo i parametri del corpo, di cui si mostra una conoscenza  perfetta: anche il libro in fieri, da cui l’autore entra ed esce, è come un corpo, in quanto al centro rimane l’io fonte di esperienza.

Dopo la liberazione avvenuta grazie all’esercito russo e alla nascita della Repubblica Popolare Romena, si vive nella idealizzazione del Partito e dell’URSS, l’omologazione è totale, le parole sono misurate e attente, la scuola indottrina e forma perfetti sudditi obbedienti, si partecipa con ardore alle sfilate. Mircea bambino vive con orgoglio le vicende del suo Paese, ripete i discorsi dei grandi in cui ha piena fiducia, anche se li percepisce misteriosi. E’ abituato alla presenza dei miliziani della Securitate e ne tollera la vista spaventosa. La narrazione oggettiva di quel vissuto, sullo sfondo di  squallore e desolazione infiniti, con la sofferenza diffusa e celata, suona come una presa di distanza e un’accusa.

C’è come un secondo occhio che deforma tutto, aprendosi una via di fuga. Il sogno si affianca alla realtà, stravolgendola, tendendola fino al surreale; non si distinguono gli orrori reali da quelli sognati, il sogno diventa incubo che dilata lo sgomento .

Il mondo di Cărtărescu è popolato da farfalle dalle grandi ali pronte a spiccare il volo, figure miste di umano e divino; da enormi ragni carnivori, da grosse pulci ammaestrate imbottite di sangue, da bruchi in trasformazione, da cervi volanti che invadono le strade e le persone. Senza contare i dolorosi ospiti di un serraglio, animali sofferenti come il contesto esterno. Uno spettacolo circense che Mircea vede da bambino diventa un perno strutturale, su cui, partendo dall’ipnosi, si innesta un viaggio surreale verso la Visione Suprema, abbacinante di luce.

Ma il narrare manca di nessi logici, si aprono continuamente finestre che guardano altrove, quasi voli pindarici, che fanno dimenticare l’oggetto e poi lo riprendono quando siamo già stati trascinati via. Intanto Cărtărescu ci ha abbacinato con un fiume di parole che sembrano uscire da una cornucopia, e poi moltiplicarsi e suonare di una loro musica speciale. Talora sembra di seguire i viaggi mentali di chi è in preda all’alcool o alle droghe, del resto Herman alcolizzato e filosofo, nella sua inverosimile storia d’amore per una creatura che non sembra di questa terra, racconta della casa di lei che prende il volo per poi riapparire, casa che vede come un ammasso di rovine a storia finita. Difficile abbattere il muro che separa l’allucinazione dal reale.

Sulle ultime pagine Cărtărescu chiarisce – a modo suo – con queste parole: “Tu che leggi, ora, distesa sul divano, questo libro illeggibile, che non dice nulla, non vuole nulla e non significa nulla, percorri insieme ad esso, simile ad una barca a vela, il piano trasparente del nostro mondo…Il mio libro ti accompagna come un cucciolo di foca che segue la sua mamma, assai più minuto di lei, e ciò che accade  tra di voi, la fitta tela di ragno tra il tuo cervello e lei…attraversa anche questa volta perpendicolarmente la membrana dell’esistenza, diventando una sfera di astrazioni scintillanti, il vero libro, l’interfaccia cerebrale tra la mia mente e la tua, il modo in cui io mi chino su di te e ti parlo”. Un romanzo  -ma difficile è l’attribuzione di un genere letterario- che lascia sbigottiti per la sua potente capacità creativa e il suo non somigliare a nessun altro.

 

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.