Franco Fortini: l’ultimo saluto
Agli amici
Si fa tardi. Vi vedo, veramente
eguali a me nel vizio di passione,
con i cappotti, le carte, le luci
delle salive, i capelli già fragili,
con le parole e gli ammicchi, eccitati
e depressi, sciupati e infanti, rauchi
per la conversazione ininterrotta,
come scendete questa valle grigia,
come la tramortita erba premete
dove la via si perde ormai e la luce.
Le voci odo lontane come i fili
del tramontano tra le pietre e i cavi…
Ogni parola che mi giunge è addio.
E allento il passo e voi seguo nel cuore,
uno qua, uno là, per la discesa.
In un piccolo ma denso scritto del 1980, dal titolo Le poesie parallele (oggi incluso in Penna Papers, Garzanti, Milano 1996) Cesare Garboli istituiva un folgorante confronto tra Sandro Penna e Franco Fortini, due poeti così diversi, per tanti aspetti, e lontani, così nitidamente ben delineati nella loro personalità poetica («Penna – si legge a un certo punto – è incollato al suo “io” e da lì non si stacca mai, raggiungendo solo involontariamente il “sé”; Fortini insegue disperatamente il “sé”, e finisce senza volerlo col girare sempre intorno al proprio “io”»), che non potevano non invitare il critico curioso a fare delle considerazioni che riescono ancora oggi a illuminare non solo parte dell’opera dei due autori, ma anche lacerti del complesso tessuto della poesia del Novecento in cui questo succinto attraversamento si stagliava. E proprio in chiusura Garboli citava gli ultimi versi della poesia di Fortini sopra riportata, a testimonianza di una ricerca («Vorrei trovare un poeta che avesse sposato non la “vita” ma le idee, creduto nelle idee con la passione, l’entusiasmo, la fede di un ragazzo ebreo con gli occhiali…») che, negli anni ai quali risale lo scritto, pare vana.
La poesia che Fortini dedica Agli amici, alla fine della silloge Poesia e errore (1956-57), figura come un’epigrafe definitiva in fondo alla raccolta del 1959, riedita – con qualche alleggerimento – nel 1969, presso Feltrinelli. Epigrafe, si può precisare (con l’avvertenza che Fortini stesso aggiunse nella seconda edizione), in calce all’errore consumato fra gli anni 1937 e il 1957: tra il primo baluginare, durante i Littoriali di Napoli, di una ferma e cosciente opposizione all’ideologia fascista, e la disillusione del nuovo corso che il socialismo sovietico avrebbe dovuto intraprendere dopo la morte di Stalin. L’invasione dell’Ungheria arrivò come una doccia fredda non solo a dividere i sostenitori del comunismo, ma anche a disperdere improvvisamente quanti avevano fin allora lavorato a un progetto di riscatto sociale e umano, credendo che il marxismo, di là dall’esatta congettura del sistema capitalistico, non fosse una semplice utopia filosofica ancora da realizzare, ma avesse bisogno solo di essere perfezionato.
Lo smarrimento di tanti “compagni” di partito o di strada, il loro disorientamento morale si fa materia di una poesia che non chiede al poeta di mettersi a nudo più di quanto non lo esiga una situazione che mette a repentaglio un intero sistema di relazioni umane prima che professionali, con tutti i principi ideali e i sintomi reali (dall’andatura ai gesti alle conversazioni) che ne regolavano l’attesa. Non più “Che fare”, dunque, ma “Dove andare”: un ripensamento che Fortini traduce nell’immagine di una catabasi collettiva che, di là da qualche eco dantesco – quale si evince dalla «valle grigia», dall’«erba tramortita, / dove la via si perde ormai e la luce» –, si scioglie in un’allegoria pronta a fissarsi, grazie alla sua tragica chiarezza, nella memoria del lettore (in calcolato crescendo: le voci sempre più lontane, il tramontano che soffia da nord su un paesaggio desolato, il senso di sconfitta, il passo che rallenta mentre il cuore è assalito dal ricordo…). Non so se è il caso di cercare ulteriori spiegazioni riguardo all’istanza originaria di questa poesia che sembra sigillare, nella sua visionaria classicità, ogni abbandono e ogni addio che seguono a una disillusione. Non a caso Garboli scelse gli ultimi versi per chiudere il suo intervento sulle poesie “parallele” di Penna e Fortini: non solo perché sintetizzano in maniera straordinariamente efficace la poesia dell’autore di Verifica dei poteri, ma lancia un monito a quanti, dopo il decennio di proteste esploso dopo il ’68, hanno cercato o ancora in quel torno d’anni cercavano un varco politico senza ritenere, come Fortini, quella «determinazione assoluta, cocciuta, testarda, gramsciana», quella convinzione propria «dei grandi eretici di una volta» in una vita che può esistere «nelle maglie faticosamente cucite» delle idee. Ennesima aspirazione destinata, in tempi brevi, al disinganno, che valeva allora e vale anche oggi; e chi la professa rischia di restare scottato di fronte al riconoscimento dell’“errore”, e ammutolito al cospetto della storia che prosegue in un’altra direzione, ove non sia in grado di lasciarne una traccia – come solo Fortini poteva fare (è giusto aggiungere) – profonda e vera nella poesia.