25 Aprile 2024
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Connie Palmen, Tu l’hai detto, Iperborea 2018, pag. 256, € 17,00, traduzione dal nederlandese di Claudia Cozzi, Claudia di Palermo.

Inglese, classe 1930, poeta laureato dal 1984 fino alla morte avvenuta nel 1998 per infarto,  Ted Hughes; americana di Boston (1932- 1963) poetessa e scrittrice,  suicida a trentun anni  Sylvia Plath -avvenne nell’appartamento al 23 di Fitzroy Road, dove aveva vissuto Yeats- . Legati  in un matrimonio che è stato una sfida all’opinione di amici e parenti, nato da una forte passione e da una profonda un’intesa culturale.

Lei lo ha affascinato per la sua irruenza vitale, perché era ben diversa “dalle donne inglesi spigolose e contegnose”; di Sylvia ha intuito la complessità, ma forse non fino in fondo. “ di una donna che invece di baciarti ti morde avrei dovuto capire che per lei amare qualcuno equivaleva a combatterlo”.

In Ted lei ha visto il marito, l’amante, l’amico e il padre: era rimasta  orfana di padre a otto anni, aveva sperimentato la depressione ed un tentato suicidio,  il ricovero in una clinica psichiatrica e l’elettroshock.

La scrittrice olandese Connie Palmer, per ricostruire la vicenda di Ted e Sylvia, si è avvalsa in primo luogo delle 88 poesie di Lettere di compleanno di Ted Hughes che lui pubblicò dieci mesi prima di morire, dove rivendica la sua versione del rapporto d’amore con la moglie, dopo aver taciuto per più di trent’anni, pur ritenuto colpevole  del suicidio di lei. Ed anche di quello di Assia Wevill, la donna con cui ha tradito la moglie, che si tolse la vita col gas infilando la testa nel  forno, come aveva fatto  Sylvia  sei anni prima.  Connie Palmer si è avvalsa inoltre  di una vasta bibliografia nonché delle introduzioni di Ted alle opere pubblicate postume di Sylvia Plath.

“Entrambi alla ricerca della propria voce, scrivevamo di giorno, sognavamo una vita da poeti, avevamo pochi soldi e passione in abbondanza”, sono le parole che la scrittrice attribuisce al narratore, Ted.

Fu un percorso intenso, che li ha portati dall’Inghilterra a Boston, da Londra alla Cornovaglia; legato alla natura lui, amante della città e delle biblioteche lei; in contatto con poeti e scrittori, in attesa di recensioni ai libri pubblicati ma anche di un lavoro, sia pur non regolare,  che permettesse loro di campare, soprattutto dopo la nascita di due figli.

Fu un percorso tormentato dalla gelosia ossessiva di Sylvia, dalla sua diffidenza, dall’ansia di abbandono, dalla sua continua ricerca del padre, dal difficile rapporto con una madre opprimente, quasi in un inespresso ma sempre presente accarezzamento della morte, continuamente in lotta con i propri incubi: “bambina ferita, donna rabbiosa, scrittrice”. Lei era “un’ampolla odorosa piena di veleno”   che nutriva allo stesso tempo amore e odio, pronta all’entusiasmo ed alla gioia di una bambina, come all’improvvisa crisi isterica, alla ricerca di una creatività che le terapie avevano compromesso e che scaturì con la forza di un geyser nelle sua poesia  confessionale ed autobiografica. Del resto “l’originalità di uno scrittore si riconosce  dal coraggio con cui ha osato lanciarsi nell’abisso, e da quanto questo è profondo”.

Era la “musa nera” di Ted, lo sbloccò, fu una ventata di energia: “tutto della mai sposa mi commuoveva, l’incapacità di essere se stessa, la ricerca di una voce autentica”.

Anche lui aveva demoni che lo inseguivano dalla storia familiare: lettore dei sogni e affascinato dalla cabala, si appoggiò alla sua sposa: “Dipendevo come un cagnolino dalla mia sposa…dalla sua capacità di far suonare ogni muscolo del mio corpo, di interpretare ogni mio sguardo e di seguirmi fin dentro i miei sogni…il senso di soffocamento, il cuore diventato inaffidabile, i tic nervosi e gli incubi, li imputo al caotico ed espropriante potere della fama e alla dolorosa mancanza della natura”.

Era convinto che Sylvia non potesse fare a meno di lui. Tuttavia dalla lettura delle poesie della moglie cominciò a capire che Sylvia “aveva bisogno di slegarsi dalla dipendenza di lui, che come moglie e come poetessa era diventata forte tanto da poter vincere i suoi demoni”.

O forse quella poesia era un’ulteriore richiesta di aiuto e di amore? Probabilmente anche il suicidio doveva essere solo ad un tentativo non riuscito: quando lei si tolse la vita aveva lasciato un bicchiere di latte e del pane davanti al lettino dei figli, ed un bigliettino con la richiesta di chiamare il dottore: “forse non avrebbe voluto arrivare fino a quel punto”.

Ted Hughes la tradisce con Assia Wevill, una passione che vive come una ritrovata libertà e che pagherà duramente con la tragedia successiva. Ormai poeta celebre, con la poesia  ha cercato di colmare il vuoto lasciato dal suicidio e si è dedicato ai figli a cui ha tenuto nascosto più a lungo possibile il modo in cui la madre li aveva lasciati.

Diventato l’esecutore della fama postuma di Sylvia Plath, ne ha dato alle stampe le  poesie nella raccolta Ariel (1966), che le ha portato fama mondiale, eliminando però le ultime pagine del diario da lui ritenute “un tradimento del loro matrimonio”: l’unico messaggio  importante che aveva raccolto nel diario era che Sylvia non voleva più vivere se il marito non fosse tornato da lei.

E’ tornato con la pubblicazione di Lettere di compleanno, in cui ha superato le avversioni per la poesia confessionale ed autobiografica ed ha raggiunto la pacificazione: “l’unico modo per potermi ricongiungere alla mia sposa, richiamarla dall’aldilà e camminare insieme a lei verso il sole, stava nello svelare la prima persona singolare che tenevo nascosta a tutti dietro la maschera di una metafora o di un’analogia”.

 

 

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.