27 Luglio 2024
Poetry

Quei cavalli di frisia…

CHEVAUX DE FRISE

Pendant le blanc et nocturne novembre
Alors que les arbres déchiquetés par l’artillerie
Vieillissaient encore sous la neige
Et semblaient à peine des chevaux de frise
Entourés de vagues de fils de fer
Mon cœur renaissait comme un arbre au printemps
Un arbre fruitier sur lequel s’épanouissent
Les fleurs de l’amour

Pendant le blanc et nocturne novembre
Tandis que chantaient épouvantablement les obus
Et que les fleurs mortes de la terre exhalaient
Leurs mortelles odeurs
Moi je décrivais tous les jours mon amour à Madeleine
La neige met de pâles fleurs sur les arbres
Et toisonne d’hermine les chevaux de friseQue l’on voit partout
Abandonnés et sinistres
Chevaux muets
Non chevaux barbes mais barbelés
Et je les anime tout soudain
En troupeau de jolis chevaux pies
Qui vont vers toi comme de blanches vagues
Sur la Méditerranée
Et t’apportent mon amour
Roselys ô panthère ô colombes étoile bleue
Ô Madeleine
Je t’aime avec délices
Si je songe à tes yeux je songe aux sources fraîches
Si je pense à ta bouche les roses m’apparaissent
Si je songe à tes seins le Paraclet descend
Ô double colombe de ta poitrine
Et vient délier ma langue de poète
Pour te redire
Je t’aime
Ton visage est un bouquet de fleurs
Aujourd’hui je te vois non Panthère
Mais Toutefleur
Et je te respire ô ma Toutefleur
Tous les lys montent en toi comme des cantiques d’amour et d’allégresse
Et ces chants qui s’envolent vers toi
M’emportent à ton côté
Dans ton bel Orient où les lys
Se changent en palmiers qui de leurs belles mains
Me font signe de venir
La fusée s’épanouit fleur nocturne
Quand il fait noir
Et elle retombe comme une pluie de larmes amoureuses
De larmes heureuses que la joie fait couler
Et je t’aime comme tu m’aimes
Madeleine

 

CAVALLI DI FRISIA

Durante il bianco e notturno novembre
Quando gli alberi lacerati dall’artiglieria
Avvizzivamo ancora di più sotto la neve
E quasi sembravano cavalli di frisia
Avvolti da onde di filo di ferro
Il mio cuore rinverdiva come un albero a primavera
Un albero da frutto sul quale si dischiudono
I fiori dell’amore

Durante il bianco e notturno novembre
Mentre cantavano tremendamente le granate
E i fiori morti della terra esalavano
I loro mortali odori
Io ogni giorno descrivevo il mio amore a Madeleine
La neve appoggia pallidi fiori sugli alberi
E ammanta di ermellino i cavalli di frisia
Che si vedono ovunque
Abbandonati e sinistri
Cavalli muti
Non cavalli berberi ma dall’ispido pelo
E io ad un tratto li animo
In mandria di bei cavalli pezzati
Che vanno verso di te come onde bianche
Sul Mediterraneo
E ti consegnano il mio amore
Rosagiglio o pantera o colombe stella azzurra
O Madeleine
Io ti amo con delizia
Se sogno i tuoi occhi sogno sorgenti fresche
Se penso alla tua bocca mi appaiono le rose
Se sogno i tuoi seni il Paracleto discende
O doppia colomba del tuo petto
E viene a sciogliere la mia lingua di poeta
Per ridirti
Ti amo
Il tuo viso è un mazzo di fiori
Oggi ti vedo non Pantera
Ma Tuttofiore
E ti respiro Tuttofiore
Tutti i gigli salgono in te come cantici di amore e di allegria
E i canti che s’involano a te
Mi conducono al tuo fianco
Nel tuo bell’Oriente dove i gigli
Si cambiano in palmeti che con le belle mani
Mi fanno segno di venire
Il razzo si apre notturno fiore
Quando si fa notte
E ricade come una pioggia di lacrime amorose
Di lacrime felici che la gioia fa cadere
E io ti amo come tu mi ami
Madeleine

 

La Frisia non fu mai la patria dei “cavalli di frisia” di cui parla Guillaume Apollinaire (1880-1918) in questa poesia; e in verità quei cavalli non erano neanche dei veri cavalli: si trattava di un ostacolo difensivo – più antichi dei “denti di drago” e dei “porcospini cechi”… – costituito da un telaio portatile formato da due pali acuminati (se non addirittura da due lance), incrociati e supportati da un terzo palo (o lancia) così da formare una stella a sei punte. Se poi li si decorava con stelle filanti di ferro spinato, così come successe durante la Grande Guerra, non è difficile immaginare quanto sia impervio riuscire a superare uno sbarramento di cavalli di frisia che costeggia per chilometri, proteggendole da eventuali assalti, le luride e fangose trincee in cui i soldati trascorrevano le loro giornate in attesa del quotidiano macello. La prima volta che vennero usati, probabilmente in età medievale, questi cavalli dovevano servire semplicemente a fermare la carica della cavalleria; in tempi più recenti, furono adoperati contro la stessa fanteria o, rafforzati da un telaio di ferro, per rallentare l’avanzata dei cingolati. Solo una squadra di fanti armati di solide e affilate tenaglie poteva riuscire ad aggirare questi sbarramenti aprendo varchi in cui, alla spicciolata, altri compagni avrebbero potuto penetrare. Ma solo un poeta dalla fantasia paradossale e irriverente come Apollinaire poteva leggere questi cavalli a rovescio, interpretandoli come figure fantastiche che ci fanno evadere dalla guerra riportandoci, con una delirante cavalcata, al ricordo della sua Madeleine, ormai non più pantera, ma annunziatrice di una calda stagione di fiori che sconfigge il lungo inverno bellico, insomma non più femme fatale ma Toutefleur.

Fra il 4 e l’11 novembre di cento anni fa si chiudeva uno dei capitoli più dolorosi della storia europea, ed è giusto interrogarsi ancora sulla feroce assurdità con cui fu combattuta, e mi pare che anche una poesia come questa – così lontana dal crudele amaro realismo di Wilfred Owen (1893-1918), ma anche dall’asciutto e profondo pathos del nostro Ungaretti, con la sua angolazione visionario, tra il grottesco e il giocoso (ancora nel solco di quella vena aperta da Apollinaire con il suo romanzo libertino Les onze milles verges, 1907, però fatta più matura, messa com’è di fronte agli orrori del fronte) – sia in grado oggi di riscattarci dalla miseria di ogni inutile guerra. Un registro che, accelerando verso il tragico, mi richiama un celebre capitolo di Kaputt, «Cavalli di ghiaccio» in cui Curzio Malaparte descrive la disfatta di uno degli ultimi battaglioni di cavalleria che, in un episodio marginale ma a suo modo emblematico dell’operazione Barbarossa, affonda negli infernali acquitrini congelati del Làdoga. Le guerre del Novecento segnano la fine delle gloriose eroiche cavallerie che per secoli avevano insanguinato il vecchio continente, ora determinando la rapida conclusione di una battaglia già decisa, ora rovesciando le sorti di una in bilico; e scrittori fini e sensibili sono tra i primi ad accorgersene. Non a caso Apollinaire non dimentica di ricordare, contro i famigerati cavalli di frisia, i cavalli berberi, che erano veri e che percorsero in lungo e in largo la civiltà europea, dalle antiche corse dei romani ai tornei medievali alle gare di caccia, senza dimenticare le incursioni cavalleresche nel pieno di cruente battaglie campali.

Questi cavalli di frisia diventano, nella poesia, un passepartout che dischiude la trasfigurazione di altri momenti chiavi di una battaglia (come quello dei fiori morti che ascoltano le parole del poeta, mentre cantano spaventosamente le granate, o il razzo luminoso che ricade come una pioggia di lacrime amorose), ma Apollinaire non s’intrappola in una meditazione sulla morte, anzi mira a una nostalgia vitalistica dell’eros, nel senso più ampio, tanto più acuta quanto più in grado di cogliere il fermento della vita proprio in una situazione drammatica, onde resistere allo sradicamento dell’odio e dell’oblio.

Apollinaire morì sfortunatamente due giorni prima dell’armistizio firmato a Compiègne tra l’impero tedesco e le potenze alleate l’11 novembre 1918: morì per la spagnola, dopo aver superato i postumi di una ferita alla testa per l’esplosione di una granata; e questa sua poesia, scritta nei primi anni della guerra e uscita in Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre (di recente edito presso Arcipelago Itaca, Osimo 2016, a cura di Norma Stramucci, autrice della traduzione sopra riportata), è come un grande inno alla vita e all’amore, su cui oggi, di là dalla straordinaria messe di libri e memorie, di versi e testimonianze, torna opportuno meditare per non chiudere in frasi di circostanza il doloroso ma sempre necessario ricordo di quella guerra che avviò l’intero pianeta, come poche altre volte era successo nella storia dell’umanità, a un destino che forse non si è ancora compiuto.

Salvatore Ritrovato

Salvatore Ritrovato (1967), poeta, critico, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Urbino. Fra le sue ultime pubblicazioni, la nuova edizione di La differenza della poesia (Puntoacapo, 2017), e la breve raccolta di versi, Cercando l’isola (Fiorina edizioni, 2017).