27 Luglio 2024
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Elenco dei nuovi populismi

Il concetto di rappresentanza in politica ha un senso molto generale. In linea teorica e in senso molto largo rappresentanza è quel determinato meccanismo politico per il quale una persona non agisce in nome e per conto suo, ma nella vece e nell’interesse di altri (della collettività). Ovvero: si ha rappresentanza quando la trasmissione formale del potere tra la totalità degli individui (il popolo, dal latino populus equivalente al greco demos) e chi è legittimato da costoro a dare forma al potere politico avviene nel libero gioco democratico. Una democrazia classica (di tipo Occidentale ovvero una liberaldemocrazia) ha come cuore il concetto di rappresentanza.

Per Platone abbiamo tre forme di governo: monarchia, aristocrazia e democrazia. Ovvero si hanno queste forme di governo quando a detenere le leve del potere sono uno solo, pochi o molti. Queste tre sono forme di governo buone che però possono degenerare, possono corrompersi, possono essere affette da una “malattia”. E così esse diventano: tirannide, oligarchia e demagogia.

Con demagogia (vera e propria “depravazione” della democrazia) si intende quella determinata pratica politica che intende ottenere il consenso del popolo lusingando le sue aspirazioni con promesse irrealizzabili. Spesso il termine demagogia è accompagnato dal termine populismo e, ancora più spesso oggi, quest’ultimo termine è accompagnato dal termine sovranismo. Cos’è dunque questo populismo? Cosa sono i Nuovi Populismi? Che rapporto c’è fra populismo e democrazia? Che rapporto esiste fra populismo e demagogia? Bisogna partire dal concetto di rappresentanza. Per Marco Revelli (nel suo libro Populismo 2.0, Einaudi) quello attuale è una «malattia senile della democrazia». Come si vede fin da subito, nel caso della demagogia e del populismo, abbiamo sempre a che fare con sintomi, malattie, degenerazioni, corruzioni.

Perché la nostra democrazia è malata? Di che cosa è malata? Perché, a giudizio dei populisti, i nostri «rappresentanti» con il loro operato rimettono «ai margini» il mandato del popolo. In questo senso si viene a creare una situazione bifocale – una vera separazione dall’alto verso il basso – nella quale vi è una élite di rappresentanti completanmente avulsa dai bisogni di quel popolo a cui esso ha affidato la rappresentanza. È la famosa «partitocrazia», sia essa di destra o di sinistra, di cui parlava Marco Pannella. In questo senso si ha che la «rivolta degli inclusi» riguarda tutta l’élite (che con un termine preso da un libro di successo di qualche anno fa viene chiamata la «casta») dalla quale ci si sente non rappresentati.

È demagogia questa? Sicuramente è una delle tesi centrali del populismo. Che poi improvvisamente vira verso il sovranismo. Infatti i sintomi della crisi (della malattia) della democrazia vengono iondividuati dai populisti in un deficit di sovranità. Che cos’è la sovranità? Dice «Wikipedia» che essa è la «somma dei poteri di governo (legislativo, esecutivo e giudiziario), riconosciuta a un soggetto di diritto pubblico internazionale (es. Stato) che può essere una persona o un organo collegiale». In fondo sovranismo vuol dire per Stefano Feltri (Populismo sovrano, Einaudi) il «potere di comando in ultima istanza in una società politica e, conseguentemente, a differenziare questa dalle altre associzioni umane nella cui organizzazione non vi è tale potere supremo, esclusivo e non derivato». In definitiva la sovranità «trasforma la forza in potere leggittimo, trasforma il potere di fatto in potere di diritto».

Sovrano è chi decide nello stato d’eccezione… diceva Carl Schmitt. La risposta demagogica e populista (due malattie della democrazia) diventa adesso rivendicazione di un territorio, di una politica giocata su un territorio, di limiti e confini.

Ma tutto questo non va contro la globalizzazione – che nasce appunto come superamento di tutte le barriere? Anche il sovranismo pare una malattia di tipo nevrotico (ritorno al passato) della globalizzazione. Siamo in presenza di tre sintomi i tre malattie: rispettivamente la demagogia della democrazia, il populismo della rappresentanza e il sovranismo della globalizzazione. C’è pure nel mezzo a tutto questo, per il populismo, una crisi di legittimazione: l’élite al potere viene vista come de-legittimata a porre in atto le sue scelte democratiche perché non direttamente investita dal mandato di tutto il popolo sovrano. Ma di quale popolo si tratta? Cos’è questo popolo che un tempo votava per il Pd e adesso vota per la Lega o per il M5S?

La forma politica democratica sta diventado, a giudizio dei Nuovi Populisti, sempre meno rappresentativa e sempre più esecutoria. Ed esecutoria di ordini e diktat che arrivano dall’Unione Europea o dalla Banca Mondiale o dal Fondo Monetario Internazionale o da tutti gli altri global players della globalizzazione. C’è qualcosa che arriva dall’esterno – ragiona il sovranista – che frena la capacità del mio governo di porre in atto delle politiche autenticamente nazionali. Ma la nostra democrazia è cambiata. Esiste una crisi sociale, esiste una progressiva erosione del cento medio, esiste una forte diseguaglianza sociale, esiste uno spartiacque netto fra gli have (chi ha) e i non-have (chi non ha). Ecco perché nasce il populismo.

In definitva di fronte all’incertezza (o come dice Bauman ripetutamente nei suoi libri, di fronte alla «precareità») delle condizioni di vita dovuta alla liquidità del contesto globale (nel quale sono venute a cadare le sicurezze politico-sociali di un tempo) si ha adesso la nascita di una nuova paura. E questa nuova paura viene incapsulata alla meglio prioprio dal populismo che la scarica tutta sulla paura degli immigrati. Intesi essi stessi come emblema della perdita di confini sicuri e della minaccia che, sempre a giudizio del populista, arriva adesso dall’esterno. Dunque, continuerebbe il sovranista: meglio rinchiudersi in un interno, in un confine territoriale, in quella che la Pace di Westfalia (1648) aveva tracciato come la linea divisoria secondo la formula “una politica, uno Stato”. Ne nasce un nuovo soggetto sociale del tutto indistinto, privo di contorni, forse anche privo di una sua caratterizzazione: Il popolo. Esso è portatore, a giudizio di Revelli, di un mood. Di un sentimento. Di uno stato d’animo. Rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità.

Dove è finito il popolo della sinistra? Il popolo della destra? Cos’è questo demos? A chi si rivolge coi suoi proclami Matteo Salvini? E Beppe Grillo? E Silvio Berlusconi? Questo popolo ce l’ha con l’introduzione della moneta unica, con i trattati bilaterali, con gli immigrati, con le élite nazionali, con il cosmopolitismo, con i mercati (col loro vincolo esterno). Ci si pone al riparo di Muri, di Barriere socioculturali.

Questo il sintomo di quella malattia della democraiza, della legittimazione e della rappresentanza chiamata liquidità. Che è solo un altro modo per dire: l’asssetto socio-economico nel quale siamo immersi oggi. Certo nessun asssetto è frutto di una Grazia che scende dal cielo e nessun assetto dura eterno. Ma quello in cui siamo oggi ha una caratteristica ineludibile: si va verso la rottura di muri, barriere, frontiere. Come Nietzsche demagoghi, populisti e sovranisti rischiano perciò di essere tragicamente inattuali.

I fattori che contraddistinguono il populismo sono tre: 1) la centralità del concetto di popolo; 2) la contrapposizione di tipo etico fra i giusti e gli empi; 3) la cacciata della élite traditrice. In una parola una concezione (ovvero un mood che è ciò che l’elettore si porta dietro nella cabina elettorale) che predilige un tipo di ragionamento politico votato alla contrapposizione netta: noi e loro; i vostri e i nostri. Arrivano i nostri… Insomma una barricata populista in nome del popolo sovrano che dovrebbe ripristinare le frontiere e ammansire la gente con le sue promesse. Fare quello che vuole il popolo… Esercitare la volonta del popolo… Esplicitare quelli che sono i bisogni del popolo…

Il Nuovo Populismo si muove in uno spazio a metà tra un ragionamento che tende a contrapporre Noi e Loro e uno stato d’animo di indistinta ribellione. E nel mezzo c’è sempre il concetto di rappresentanza, che è uno dei cardini delle moderne democrazie occidentali. Le elezioni sono soltanto un’illusione per i populisti…

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.