8 Dicembre 2024
Sun

Michel Houellebecq, Serotonina, La Nave di Teseo, Milano 2019, pagg. 332, 19,00 euro.

Una recensione onesta all’ultimo romanzo di Michel Houellebecq potrebbe partire dal pompino. Alle pagine 60 e 61, l’autore, per bocca del suo alter-inter-extra ego, Florent-Claude Labrouste, consulente al Ministero dell’Agricoltura, descrive quello che a sua detta sarebbe il pompino perfetto, vale a dire quello senza gola profonda. E qui cade già un presupposto sessuale credibile. Così come, pagine più avanti il protagonista mescola vino rosso e vino bianco in maniera del tutto indifferenziata, dimostrando, anche nel campo degli alcolici, un atteggiamento del tutto “amatoriale”. Ma tant’è. Questo è un romanzo che alla fine parla di amore, o meglio dell’incapacità di accogliere fino in fondo l’amore che alcune donne (almeno due con grande piglio e determinazione) avevano provato a costruire insieme al depresso narratore di Serotonina (La nave di Teseo, 2019).

In mezzo a tante descrizioni di sesso ciò che spicca, in tutta la sua meravigliosa presenza e al tempo stesso in tutta la sua fragilità, è proprio l’amore: l’amore dei genitori di Florent che si sono suicidati insieme quando uno dei due era malato terminale; l’amore di Camille per lui, dato in tutta la sua potenza giovanile; l’amore del nobile amico agricoltore per la propria terra e i propri animali; l’amore per la vita di Florent stesso che non è capace di venire a capo di un’esistenza raccogliticcia e non sa cosa farsene della sopravvivenza. Eppure è solo l’amore a darci la speranza e la salvezza, come scrive di Kate: “Avremmo potuto salvare il mondo, avremmo potuto salvare il mondo in un batter d’occhi, in einem Augenblick, ma non l’abbiamo fatto, anzi non l’ho fatto io, e l’amore non ha trionfato, ho tradito l’amore e adesso quando non riesco più a dormire cioè quasi tutte le notti, sento nella mia povera testa il messaggio della sua segreteria; e la sua voce era così fresca, era come tuffarsi sotto una cascata alla fine di un polveroso pomeriggio d’estate, ci si sentiva subito lavati da ogni lordura, da ogni sconforto e da ogni male”.

 

Come ho scritto già altrove, l’amore e il disamore, l’incapacità di essere felici, attiene alle cose ultime come la morte e la religione. E non è un caso che il finale del libro sia votato tutto al tema religioso, cioè all’umano, al terribilmente umano.

Ma lì ci si arriva attraverso una disamina del proprio carattere da parte del protagonista, come quando scrive: “Nella vita mi era stato regalato poco, e a mia volta avevo poca voglia di regalare; in me la bontà non si era sviluppata, il processo psicologico non era avvenuto, anzi gli umani nel complesso mi erano diventati sempre più indifferenti, per non parlare dei casi di ostilità pura e semplice”.

Siamo di fronte a un fallito nell’amore e quindi a un fallito nella vita. Questo ci dice e ci vuol dire Houellebecq. Florent desidera liberarsi della sua fidanzata giapponese Yuzu e trova il modo più perfido possibile: lei lo tradiva con tanti altri uomini e in situazioni di sesso filmato con gang-bang e animali; lui scompare disdicendo l’affitto della casa dove vivevano insieme, senza dirle nulla.
Florent va a vivere in hotel e comincia a fare il giro di tutte le ex-fidanzate che trova (o non trova) in situazioni complicate quando non proprio tristi. Poi fa visita al vecchio amico di università e scopre che la sua attività di allevatore sta andando a morire. Assiste dunque a una manifestazione di agricoltori francesi che, esasperati dalla miseria e dall’indifferenza della politica al loro grido di disperato aiuto, attaccano la polizia, pure se il suo amico Aymeric si suicida di fronte al plotone dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. L’Europa è madre ma soprattutto matrigna, costringendo i contadini francesi a morire di guai e di stenti.
Poi la vista dell’amata Camille che il protagonista, inspiegabilmente, osserva da lontano, sola col figlio che secondo lui è l’ostacolo primario a una possibile ripresa della storia amorosa tra i due.
Almeno questa parte del racconto è piuttosto inverosimile, anche se molto houellbecqiana. Vale a dire che nessuno – credo – in maniera così determinata agirebbe come Florent in quelle circostanze. Chiunque proverebbe almeno a parlare di nuovo con il vecchio amore, mentre nel romanzo il narratore persegue un disegno paranoico, probabilmente dettato da una condizione psicologica malata e tuttavia forzatamente appartata e ostile.

Il romanzo, alla fine, mette pure in evidenza che nessuno può concretamente sottrarsi al modo di agire e di pensare della propria epoca, come scrive qui: “Avrei potuto rendere felice una donna. Anzi, due; ho già detto quali. Tutto era chiaro, estremamente chiaro, sin dall’inizio; ma non ne abbiamo tenuto conto. Abbiamo forse ceduto a illusioni di libertà individuale, di vita aperta, di infinità dei possibili? È probabile, quelle idee erano nello spirito del tempo; non le abbiamo formalizzate, ce ne mancava l’inclinazione; ci siamo limitati a conformarci a esse, a lasciarcene distruggere; e poi, per molto tempo, a soffrirne”.

Ed ecco pure il tema religioso che scorgevo in alcuni passi del libro, mai esplicitato se non a chiusura della storia: “In realtà Dio si occupa di noi, pensa a noi in ogni istante, e a volte ci dà direttive molto precise. Questi slanci d’amore che affluiscono nei nostri petti fino a mozzarci il fiato, queste illuminazioni, queste estasi, inspiegabili se consideriamo la nostra natura biologica, il nostro statuto di semplici primati, sono segni estremamente chiari. E oggi capisco il punto di vista del Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all’insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni, e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per quei miserabili? È proprio necessario essere così esplicito?”.

Un tema legato anche al sesso, quello religioso, almeno nel passaggio in cui il narratore, dopo aver raccontato delle abitudini sessuali della fidanzata giapponese, dice che gli si potrebbe rimproverare di dare troppa importanza al sesso. Eppure non si può non essere d’accordo col fatto che, “se per disgrazia l’umanità occidentale fosse riuscita a separare effettivamente la procreazione dal sesso (come a volte sembrava intenzionata a fare) avrebbe condannato al tempo stesso non solo la procreazione ma anche il sesso, e contestualmente avrebbe condannato pure se stessa, e questo i cattolici identitari l’avevano capito bene”. Pure se questo terzo millennio sembra essere, a detta di Houellebecq, il millennio di troppo per l’Occidente giudeo-cristiano.

Poi ci sono altre due questioni. Una è quella del Captorix, cioè un farmaco che produce serotonina per rendere passeggero ciò che è ineluttabile, per aiutare a non morire la gente; farmaco di cui il protagonista fa larghissimo uso. E la questione del cortisolo che irrompe quasi sul finale della storia e che il suo alto parametro nel sangue di Florent fa dire al medico: “Ho la sensazione che lei stia molto semplicemente morendo di tristezza”.
L’altra riguarda l’inutilità della cultura, come Houellebecq spiega attraverso la coscienza del personaggio principale facendogli commentare La montagna incantata di Thomas Mann e Il Tempo ritrovato di Marcel Proust. Nel primo caso lo scrittore tedesco “era stato incapace di sfuggire al fascino della giovinezza e della bellezza, che alla fin fine aveva messo sopra ogni cosa, sopra ogni qualità intellettuale e morale”. Nel secondo caso lo scrittore francese diceva che “non erano i rapporti mondani né i rapporti d’amicizia a non offrire niente di sostanziale, che erano molto semplicemente una perdita di tempo e che non era affatto di conversazioni intellettuali che lo scrittore aveva bisogno, bensì di leggeri amori con giovani donne in fiore”. I due mostri sacri del romanzo decretano quindi “il fallimento di ogni idea di cultura europea, e con la vittoria finale dell’attrazione animale, la fine assoluta di ogni civiltà, di ogni cultura”.

Houellebecq riesce, ancora una volta, con maggiore determinazione che in altre prove forse, a descrivere un tema fondamentale dell’uomo occidentale: il rapporto tra l’individuo e l’amore, cioè il rapporto malato tra individui, in una società che sta esplodendo economicamente e socialmente. L’individuo è emarginato, solo e tendenzialmente nutre un addio definitivo dal mondo delle relazioni profonde. La calma è un generico additivo chimico che aggiusta l’andamento esistenziale, ma non offre alcuna soluzione credibile o raccomandabile. Che cosa serve fare? Tornare al barbaro clan, cioè alle cose davvero serie del vivere? Oppure rallegrarsi del mortifero contemporaneo, dove si possono degustare anche 12 tipi differenti di hummus, ma dove la solitudine non è beato otium classico, bensì lacerante offesa alla vita?