18 Aprile 2024
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Jón Kalman Stefánsson, La prima volta che il dolore mi salvò la vita, Iperborea 2021, pag. 288, €17,50. Traduzione di Silvia Cosimini

Quando di Jón Kalman Stefánsson si è letta tutta la prosa disponibile in traduzione italiana, affascinati ogni volta dalle storie, dal contesto in cui sono immerse, dalla capacità di giocare con le parole -che apprezziamo nella traduzione di Silvia Cosimini- e pensiamo a lui come romanziere, la scoperta della sua poesia è un dono che ne completa l’immagine.
Nella raccolta La prima volta che il dolore mi salvò la vita Stefánsson ci regala una introduzione in cui parla di sé, di come abbia cercato un lavoro fin dal termine della scuola dell’obbligo, a soli sedici anni, dei suoi lavori come manovale, mozzo,  operaio in uno stabilimento ittico, lontano anni luce dalla poesia e dalla letteratura in genere.
Poi si imbatte nella poesia di un autore islandese e ne rimane affascinato: “ero rimasto affascinato dalla naturalezza con cui svelava le contraddizioni insite nell’immagine che l’uomo ha di sé, la sua pericolosa propensione a mettersi su un piedistallo, a considerarsi in un certo senso superiore agli altri esseri della terra, come se detenesse più privilegi degli altri”.

Nel corso degli studi si trova  a scrivere un racconto su richiesta dell’insegnante di Islandese e scopre di essere stato tanto bravo da venire addirittura accusato di furto letterario. Diventa lettore accanito soprattutto di prosa, e vuole diventare scrittore, ma si rende conto che la forma poetica per lui è la più adatta, perché se scrive in prosa,  “dopo dieci righe ho già detto tutto quello che volevo dire”.
Quindi si dedica alla poesia pur continuando a fare il manovale – intanto  è passato da una facoltà universitaria all’altra senza sapere che cosa fare da grande – e pubblica a sue spese la prima raccolta, purtroppo per sentirsi chiedere da qualcuno “perché tanto spreco di carta?”

Ma una voce autorevole  gli scrive: “E’ chiaro che hai la stoffa del poeta. La lingua è elegante e si vede che comprendi il valore delle parole. Ho notato che ti diverti a lanciare per aria parole svincolate dai nessi naturali, che a guardar meglio si rivelano legate in rapporti interni[…] ho notato anche che componi con una profonda inquietudine sul destino dell’uomo e della nazione, un po’ come la voce della coscienza del mondo”.

La prima volta che il dolore mi salvò la vita raccoglie Con il porto d’armi per l’eternità, poesie del 1988, Dai reattori degli dei, del 1989, ed altro.
Scopriamo albe dai “rigidi raggi di sole” la notte con “alleati/apparsi dal buio”, “fatti della densità del sogno”, giornate uguali quando “l’aurora si addensa in un sole/che come sempre non vede nulla di nuovo/e paventa l’eternità”, quando si deve trovare il coraggio di ripartire: “mi butto e vado”.
Non è facile comunque trovare il senso della vita. Anche Lazzaro dopo la resurrezione “avanza insonnolito” e maledice il calore asfissiante che lo aspetta, chiaro simbolo di un mondo messo sotto accusa; intanto i sogni ad occhi aperti portano “deserti popolati da creature mostruose”.

Passa nei versi la critica alla nostra società e alla eccessiva corsa verso la tecnologia: “un cervellone/si trastulla con l’evoluzione del genere umano/mentre si munge/il seme per la crioconservazione”. Con un humor sempre presente  che arriva al sarcasmo  esprime  la stanchezza del divino nei confronti di questa umanità: un giorno “si potrà vedere dio/andare a caccia insieme al  futuro/l’attimo prima/di fare fagotto e andarsene/con il cielo sottobraccio”.
Condanna questo “mondo privo di ideali”, dalle enormi differenze di condizioni di vita, dove ognuno  dovrebbe provare vergogna   davanti al proprio frigorifero pieno “quando ti si accalcano addosso immagini/di bimbi affamati/del terzo mondo e di savane sabbiose”. E intanto i governi non fanno niente per la gente, ma solo reiterate promesse.

Un ritorno ai rapporti diretti, fisici, veri, quando si possono incrociare conversazioni opinioni e ricordi, quando l’umanità si svela, è ciò che lui auspica per il futuro: “mandiamo la logica delle armi atomiche/nel manicomio del passato/e d’ora in poi prendiamo l’abitudine/ di sparare ai televisori”.

La condanna dell’homo sapiens è spietata  -come può giungere da un giovane carico di speranza e  di rabbia- : “Sulla tua lapide confido/sarà scritto: “A giudicare dal quoziente intellettivo/era incredibilmente cretino”. E’ un mondo caduto in rovina, che suscita un desiderio pericoloso e una domanda: “da dove mi venga questa voglia/di darti una bella pedata/mentre ti dondoli/sull’orlo de precipizio”.
A Reykjavik col suo “panorama di case/questi vicini anonimi/e il silenzio/che non c’è mai”, lui rimpiange il vento nel sud, sul mare “con l’aurora/dove dimorano i monti”.
Raccoglie la vita che gli scorre davanti  e ne fa poesia, può essere un incidente d’auto, un corvo che stacca un occhio a una pecora- chiaro simbolo di violenza-; può essere il ciclo dei giorni che riporta le sere dalle poche luci “e in casa/l’attesa delle previsioni del tempo/mentre rantola la pipa/e un vecchio cane/dorme sotto il tavolo”.

La poesia può raccattare la vita in una “sporca stanza d’albergo/con la carta igienica esaurita/e un sospetto alone giallo sui muri”, in una notte “sgualcita”, sotto “i fiotti di lava della città”, quando si è combattuti “tra una puttana e una bottiglia di whisky”. Ci sono momenti in cui gli viene voglia di “sparare all’eternità”.

C’è comunque una lei che compare, che  torna con un costante profumo di femminilità: ”la tua figura /che per la mente passa/sogno biondo di primavera”; “Tu/ogni volta che chiudo/di nuovo gli occhi”. Ma l’ironia che affiora spesso, sottile, tocca anche i rapporti affettivi: “sì al sicuro la prossima volta che ci vediamo/potremo evitarci a vicenda/con estrema cortesia”. E interessa anche i sogni e le illusioni create dallo schermo con l’immagine di una bella donna: “allungo le braccia/mentre/la telecamera arretra/ e lui entra nell’inquadratura”.
Dai reattori degli dei, pubblicato a ventisei anni, inizia con una negazione, “Non ho niente da dire” ma “ho rubato i reattori da un sogno degli dei/e sto puntando al sole/dopo un pugno di istanti come folgori”. E poi “ho un mandato d’arresto per l’eternità/faccio della morte un fattorino/a un appuntamento col vento”. Per concludere che “la lingua/è la donna della mia vita; chino ai suoi piedi/sospetto il tradimento a ogni parola/a ogni sillaba”.
Di conseguenza, essendo prepotente il richiamo e il fascino della parola, alla donna pensa a volte “quando/la scia/che il sole ha lasciato calando/scompare in fretta/e il cielo della sera si dilata/coperto di chiazze dello sperma di dio”.

Il silenzio si affaccia dovunque, voce di una terra coperta di neve, dalle estati brevi che lasciano solo il tempo di una rapida fienagione, dalle case di torba, dai monti che si elevano sul mare e i mucchi di sassi coperti di muschio, percorso, il silenzio, dal sibilo del vento /che infuria. tra le case”.
Qui la condanna sociale si fa ancora piò forte:, “un tempo/ero un comunista/credevo nella bellezza del genere umano/Ero un bambino/un idiota felice”; qui ironizza sull’ignoranza  che  “d’ora in poi/ci perseguiterà solo in sogno”, e torna il quotidiano, trasfigurato  simbolicamente, mentre gioca con la  disposizione stessa dei versi sulla pagina bianca.
Irrompono sogni inquietanti: “sogni inquieti, come persone insonni,/dietro ogni finestra. Il silenzio quasi chiassoso”, con le forme dei monti che si confondono, le notti che gravano sugli uomini quando la luce si smorza e muore e “in mezzo alla strada le case/come tartarughe fossilizzate/passi pesanti/trasformano la polvere in quiete/e i teschi si riempiono di voci”. Notti nordiche lunghe: “questo è l’istante/in cui il sonno è una donna indifferente/il frigo stranamente chiassoso/e il buio/non lascia passare il tempo”.
Ma, come si legge nell’esergo ad una silloge  del 1993 preso da Vladimir Majakovskij “La notte si ha desiderio di nascondere/il proprio suono in un morbido/corpo di donna”):  qui la donna diventa il centro  della parola poetica, e non fanno più paura la sera che cancella l’orizzonte né la notte lunga: “e poi:/una conflagrazione in cielo/e tu prendesti fuoco/tra le mie braccia”; perché “la donna, la nascita, la morte/le sole parole che conosco”.  Del resto aveva già scritto “donna, guarda,/ho mandato quest’uomo/così posso strappargli/ gli occhi/-e tenerli per me/con la tua immagine dentro”.

La poesia di Stefánsson ha  elementi che troveremo intrecciati alle storie entusiasmanti che crea nella prosa successiva, quella che lo farà conoscere come romanziere, che non perderà mai  la musicalità della poesia.
“Le parole svincolate dai nessi naturali, che a guardar meglio si rivelano legate in rapporti interni”, come gli scrisse un critico, non impediscono di cogliere il pensiero profondo, ma soprattutto lasciano ai nostri occhi e alla mente  una ricchezza incredibile di immagini che risuonano come una melodia.

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.