15 Ottobre 2024
Poetry

Esilio e orfanità di Torquato Tasso

O del grand’Appennino
figlio picciolo sì ma glorioso,
e di nome più chiaro assai che d’onde;
fugace peregrino
a queste tue cortesi amiche sponde
per sicurezza vengo e per riposo.
L’alta Quercia che tu bagni e feconde
con dolcissimi umori, ond’ella spiega
i rami sì ch’i monti e i mari ingombra,
mi ricopra con l’ombra.
L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega
al suo fresco gentil riposo e sede,
entro al piú denso mi raccoglia e chiuda,
sì ch’io celato sia da quella cruda
e cieca dea, ch’è cieca e pur mi vede,
ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ’n valle
e per solingo calle
notturno io mova e sconosciuto il piede;
e mi saetta sì che ne’ miei mali
mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali.

Ohimè! dal dì che pria
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
in questa luce a me non mai serena,
fui de l’ingiusta e ria
trastullo e segno, e di sua man soffersi
piaghe che lunga età risalda a pena.
Sàssel la gloriosa alma sirena,
appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:
così avuto v’avessi o tomba o fossa
a la prima percossa!
Me dal sen de la madre empia fortuna
pargoletto divelse. Ah! di quei baci,
ch’ella bagnò di lagrime dolenti,
con sospir mi rimembra e de gli ardenti
preghi che se ’n portar l’aure fugaci:
ch’io non dovea giunger più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Lasso! e seguii con mal sicure piante,
qual Ascanio o Camilla, il padre errante.

In aspro essiglio e ’n dura
povertà crebbi in quei sì mesti errori;
intempestivo senso ebbi a gli affanni:
ch’anzi stagion, matura
l’acerbità de’ casi e de’ dolori
in me rendé l’acerbità de gli anni.
L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni
narrerò tutti. Or che non sono io tanto
ricco de’ propri guai che basti solo
per materia di duolo?
Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?
Già scarsi al mio voler sono i sospiri,
e queste due d’umor sì larghe vene
non agguaglian le lagrime e le pene.
Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,
egro e morto ti piansi, e ben tu il sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
a me versato il mio dolor sia tutto.

 

 

Nel 1578 Torquato Tasso, in fuga per la seconda volta da Ferrara, arriva a Urbino con la speranza di ricevere ospitalità e protezione dal duca, nonché compagno di studi, Francesco Maria II della Rovere (1543-1631). Durante un provvisorio soggiorno a Fermignano, piccola cittadina presso Urbino, sul Metauro, ospite di Federico Bonaventura, Tasso si accinge a scrivere una canzone in cui l’intento di omaggio per il duca traspare evidente nella prima stanza; ma sin dai primi versi è altresì evidente che il componimento seguirà una via diversa da quella del solito encomio, cui si sovrappone, facendola passare in secondo piano; ed ecco nella terza stanza qualcosa incepparsi: la canzone rimarrà incompiuta. Dall’autore non sapremo mai le ragioni, ma non si avrebbe difficoltà a immaginarle: il poeta è stato preso da altre cose, non ha sentito più la spinta iniziale ed è ricaduto nella malinconia, e così via. Tutto possibile. Credo però che se ne possa considerare almeno un’altra, che se appare poco provabile sul piano documentario, può afferrare bene chi ha a che fare con il rovello della creazione artistica. Non si tratta di una banale mancanza d’ispirazione, tutt’altro, è un sentimento, ovvero un presentimento dell’inadeguatezza del linguaggio creativo rispetto all’obiettivo prefissato. Come se la “forma”, nonostante lo stile alto, magniloquente, non privo però di “grazia” (per cui Tasso la citò come esempio nei Discorsi del poema eroico), non riuscisse a contenere l’intensità del “contenuto”, e di riflesso l’abbondanza d’ispirazione. Prendiamo I prigioni di Michelangelo, e in particolare i non-finiti, sui quali l’artista lavorò dal 1525 al 1530: forse, a un certo punto gli venne meno l’ispirazione? o non ebbe più tempo per finirli? Niente di tutto questo. Ogni volta che ci tornava, con maggiore furia e determinazione, Michelangelo si rendeva conto che, con tutta la raffinatissima tecnica a disposizione, la vita non gli sarebbe bastata a completare l’opera che aveva in mente, e che intanto provava a tirar fuori dalla materia. Gli esseri che si sprigionavano dalla nuda pietra, come da un caos primigenio, sorgevano in verità da altre dimensioni temporali, e l’artista sentiva che il linguaggio che provava a tradurle in forma non sarebbe giunto tanto all’illustrazione dell’opera compiuta, quanto all’intuizione di una visione incompiuta. Lo stesso discorso potrebbe valere per la sinfonia L’incompiuta di Schubert, il quale avrebbe avuto modo di chiudere prima di morire, ma lasciò come un finale aperto, una sorta di porta che si dischiude (come prova l’adozione della tonalità in si minore, affatto inusuale per le sinfonie del periodo classico) alla stagione romantica.

Ma torniamo alla canzone di Tasso (qui proposta nella versione curata da Bruno Basile per l’edizione Salerno delle Rime, 1994). Il desiderio di essere al servizio dei della Rovere (già manifestata in una lunga lettera, non priva di amare riflessioni, che il poeta indirizza al duca spiegandogli i motivi della sua improvvisa partenza da Ferrara e la sua erranza da Mantova a Padova a Venezia, e che, per chi ha voglia di leggerla, Giovan Battista Manso riporta diligentemente nella sua Vita di Torquato Tasso, p. I, cap. XIII) non conta più della rasserenante visione della campagna marchigiana, anzi della sua rivelazione. Se il tema encomiastico detta la convenzionale protesta contro la fortuna crudele, ecco che la pace del luogo apre l’anima del poeta alla confessione, nella quale affiorano i ricordi più dolorosi della sua vita che si concentrano in particolare sulle figure della madre e del padre: la madre, Porzia de’ Rossi, che un Torquato ancora bambino è costretto a lasciare, per raggiungere il padre nel suo esilio politico (a seguito del complotto contro il viceré Pedro de Toledo, nel 1547), morirà all’improvviso (e con qualche sospetto) nel 1556, e il poeta si porterà dietro il rimorso di non averla più rivista e abbracciata; d’altronde, con il ricordo delle peregrinazioni di corte in corte, sempre sul filo di una povertà dignitosa ma umiliante, fino alla morte nel 1569, del padre Bernardo, il poeta arriva a uno spietato confronto con il linguaggio della sua stessa “poesia”, che supera gli steccati domestici di un gradito encomio al Signore e alla sua famiglia, e punta direttamente, come si evince dall’apostrofe al fiume Metauro, non tanto all’esaltazione storica del piccolo grande fiume (che assisté, nel 207 a.C., alla disfatta di Asdrubale nella seconda guerra punica) quanto al recupero della grammatica simbolica del locus amoenus, che non rientra solo negli schemi della poesia pastorale, ma si avvia a sostenere (ecco il poeta sentirsi protetto all’ombra iperbolica di quella Quercia che è il simbolo araldico dei della Rovere, e i cui rami, dal fitto fogliame, si spandono per terre e mari) la visione di una sospirata pace interiore, all’interno di una utopica concordia di “corte” tra governanti, dignitari e intellettuali. Quegli spunti che rientrano in una matura poetica di corte, nella I stanza («figlio piccolo, sì ma glorioso», v. 2; «cortesi… sponde», v. 5; «ombra… ospital», v. 11; «gentil riposo e sede», v. 12), sono subito riassorbiti dalla meditazione autobiografica che si snoda a partire dalla II stanza, in cui il poeta rievoca, partendo dall’infanzia, la sua vita sfortunata («Ohimè! dal dì che pria / trassi l’aure vitali e i lumi apersi…», vv. 21 ss.), con una implicita epicizzazione della vicenda personale, che da un lato non rinuncia, tra latinismi e termini letterari, alla citazione forbita («con sospir mi rimembra», dalla celebre Chiare, fresche e dolci acque di Petrarca) o al classicismo allusivo (come nell’indicazione del luogo di nascita, o nel confronto della sua fuga, verso il padre, con i personaggi dell’Eneide, vv. 39-40), dall’altro, con una spigliatezza affatto nuova che richiama l’agilità ritmica del madrigale (del quale Tasso era uno dei più ammirati cultori) raggiunge commossi accenti nel ricordo della figura materna, dal cui distacco la memoria non trova riparo, e che rimanda già alla III stanza, la quale si snoda lungo un drammatico singhiozzante monologo sull’assurdità di una condizione che ha consumato i suoi anni, fino all’accorata invocazione al padre («che dal ciel rimiri», v. 55), fino al verso finale che suggella la canzone come un epigrafe desolante sulla certezza di un destino di dolore, che è “tutto” («a me versato il mio dolor sia tutto»). Tasso sente il fascino e il rischio della confessione della sua vicenda personale, ma deve sospendere il quotidiano “gioco al massacro” con la parola traducendo il silenzio che segue alla rima baciata che chiude la III stanza («lutto»/«tutto», ripresa da Leopardi in quello spietato redde rationem che è A se stesso: «brutto»/«tutto») in una scommessa con la vita.

 

La lettura delle tre stanze dimostra che non ci troviamo davanti a un insieme di versi in attesa di essere sistemati: il poeta aveva un’idea del percorso argomentativo che avrebbe sviluppato. Dentro quei sessanta versi, che sfoggiano una raffinata testura retorica, bolle una materia così dolorosa che non solo esula dal banale intento celebrativo e apologetico (Tasso vuol elencare i tristi casi della sua vita solo per conquistare la pietà del Duca di Urbino?), ma ci apre un orizzonte affatto nuovo nello scenario della poesia cinquecentesca, quello di un uomo che si sofferma sulla propria vita tormentata, senza indulgere né risparmiare l’effusione dei suoi affetti, e così fa i conti con la sua condizione di esule e di orfano, di emarginato e sradicato. La condizione di un poeta che presente i tempi, più moderno di quanto non sia già un Ariosto, “romantico” – per dirla con i primi acuti lettori del Tasso di Goethe (scritto negli anni del soggiorno in Italia, fra il 1786 e il 1788). Altri poeti prima di Tasso avevano attinto al repertorio del proprio vissuto (la morte della donna amata, quella del fratello caro, l’umiliazione di un rifiuto, ecc.), ma in questa canzone di Tasso si avverte qualcosa di più profondo. Il dramma non si è svolto una volta per sempre ma continua a svolgersi nella memoria del passato e nella coscienza che probabilmente non ci sarà soluzione. È questa la “condizione” esistenziale che fa la differenza tra un Tasso (o un Michelangelo) e i tanti pur bravi diligenti letterati contemporanei; e per illustrarla il poeta ha bisogno di una lingua che in quel momento la tradizione lirica non può fornirgli se non in parte: una lingua dei sentimenti che trascende il campo semantico delle immagini fino a quel momento tesaurizzate dalla tradizione letteraria. È come se la canzone si fermasse sul ciglio di un abisso oltre il quale si intravedono i secoli che porteranno alla conquista di un vocabolario intimo delle passioni, e al riconoscimento del valore dell’esperienza individuale.

Non è solo una condizione di “esilio” che Tasso ritrae nella sua Canzone al Metauro, ma anche di “orfanità” che affonda in un’infanzia stroncata, ricordata con nostalgia e amarezza (l’affetto della madre, la sua morte improvvisa), e in una giovinezza bruciata senza pietà nel corso di una vita randagia. Ad affacciarsi per prima, nella canzone, è l’idea dell’esilio, sin dal v. 4, in cui l’autore si definisce «fugace peregrino» e spera di trovare riposo all’ombra della quercia, e riemerge nella rievocazione dell’«aspro essiglio» cui fu costretto il padre Bernardo che lo portò con sé, «errante», in «mesti errori». Uomo sradicato e senza patria (e stiamo parlando di Tasso, non di Ungaretti), il poeta è costretto dalla sorte a vagare senza trovare un ubi consistam, e senza sapere che tale condizione lo avrebbe accompagnato sino alla morte (che avverrà a Roma, nel 1595, dopo anni d’inquieti viaggi e spostamenti). Ad aggravare la condizione dolorosa dell’esule è la doppia “orfanità”, ribadita alla fine della seconda stanza, e poi della terza, che espone il poeta tanto a ristrettezze economiche, quanto a una solitudine incolmabile; ma a sigillarla è il silenzio che si spalanca dopo la rima baciata che chiude la terza stanza, allorché il poeta avrebbe forse cominciato a narrare in maniera dettagliata la triste vicenda del padre, non si sa se per un nuovo viaggio a Torino (dove sperava di trovare la protezione del duca di Savoia) o perché l’ispirazione della lirica era nel frattempo venuta meno, o non piuttosto (io direi) in quanto la materia era troppo dolorosa per poter essere ancora dipanata, e trasfigurarsi in un incubo esemplare.

 

Salvatore Ritrovato

Salvatore Ritrovato (1967), poeta, critico, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Urbino. Fra le sue ultime pubblicazioni, la nuova edizione di La differenza della poesia (Puntoacapo, 2017), e la breve raccolta di versi, Cercando l’isola (Fiorina edizioni, 2017).