2 Maggio 2024
Words

5 domande su Israele e Palestina

Mentre l’Autorità palestinese ha evitato le elezioni, il nuovo progetto di governo israeliano aspetta la conta alla Knesset. Ma non si può ignorare ciò che è successo in queste ultime settimane. E chi, come me, da anni frequenta Israele e Palestina per lavoro, avendo contatti professionali con soggetti di entrambe le parti deve porsi alcune domande. Stiamo parlando ancora una volta del conflitto tra palestinesi e israeliani che ormai dura da almeno 74 anni. Si tratta di un conflitto che ha vissuto momenti di vera e propria guerra tra Israele e la popolazione palestinese con i suoi vari alleati arabi (Egitto, Giordania, Siria) e le sue formazioni politico-militari (OLP, Hamas, Jihad), ma anche momenti di scontri urbani, di atti di terrorismo, di piccoli o grandi soprusi quotidiani che fomentano una situazione di odio e di violenza che permane, tra alti e bassi, tra le due popolazioni coinvolte. Tuttavia, pur in questa situazione di grande difficoltà, le due popolazioni convivono in un territorio equivalente all’Emilia-Romagna e, addirittura, vivono nelle stesse città e spesso condividono la stessa nazionalità, come accade ai cittadini israeliani di origine araba.

Questo apparente paradosso appare ancora più evidente se si confronta la situazione reale con quella che la comunità internazionale ha immaginato sin dal lontano 1947 come la soluzione della questione israelo-palestinese, e cioè la cosiddetta soluzione dei “due popoli e due Stati”. Frase che è ormai è diventata un mantradi ogni dichiarazione di uomo politico o di governo quando si cimenta con quelle vicende e che sempre di più appare un consunto slogan a cui non sembra credere più nessuno.

Forse è giunto il momento di analizzare con obiettività le ragioni per le quali quella soluzione non si è realizzata sinora, domandandosi se rappresenta ancora un credibile sbocco di una delle vicende più complesse della nostra epoca. Solo ponendosi le domande giuste, forse, la comunità internazionale potrà dare le giuste risposte e contribuire al superamento dell’attuale conflitto, dando a entrambi i popoli una concreta prospettiva di pace e di sviluppo.

Se proviamo a individuare le principali cause dello scontro in atto in Palestina da quasi un secolo, si può ricavare un elenco di almeno cinque punti, non necessariamente esaustivo e nel giusto ordine di importanza.

  1. La questione dei confini dei due ipotetici Stati: sin dalla Risoluzione ONU n. 181 e della guerra arabo-israeliana del 1947-48 i confini tra i due ipotetici Stati appaiono quanto mai controversi e contestati da entrambe le parti. La costruzione del muro da parte di Israele sembra ormai aver cristallizzato la situazione attuale e sorge spontanea una domanda: l’attuale situazione è davvero reversibile? In altri termini, l’ipotetico Stato palestinese potrà accettare lo status quo?
  2. La questione di Gerusalemme: entrambi le parti la rivendicano come propria capitale “eterna” e irrinunciabile. Si pensa davvero che sia sufficiente ritornare alla separazione ante “Guerra dei sei giorni” tra Gerusalemme Est e Gerusalemme Ovest? Per non parlare del problema nel problema e cioè della gestione della Città Vecchia e della Spianata delle Moschee, che ospitano i luoghi più sacri per le tre religioni monoteiste e che hanno un carattere simbolico fortissimo per entrambi i popoli e per il mondo intero.
  3. La questione dei profughi palestinesi (o di ciò che ne rimane a livello internazionale): lo status di profugo palestinese è l’unico che si tramanda, secondo l’ONU, di padre in figlio e tuttora i figli e i nipoti delle donne e degli uomini palestinesi estromessi dalle loro abitazioni e dai loro villaggi dopo la guerra del 1947-48 rivendicano il diritto a ritornare nelle case abitate dai loro avi, ammesso che esistano ancora. L’enorme complicazione è data dal fatto che quelle abitazioni e quei villaggi oggi si trovano sul suolo dello Stato di Israele: chi potrà convincere gli eredi dei profughi palestinesi a rinunciare per sempre al loro sogno, tramandato di generazione in generazione?
  4. La questione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania: migliaia di famiglie di ebrei oggi vivono in villaggi o, in molti casi, in vere e proprie città sorte negli ultimi decenni nei Territori occupati da Israele dopo la “Guerra dei sei giorni”. Spesso si tratta di intere famiglie immigrate dai luoghi più lontani del mondo (spesso dalle ex Repubbliche sovietiche dopo il dissolvimento dell’URSS) e richiamati dallo Stato di Israele in virtù della cosiddetta Legge del Ritorno; queste famiglie hanno riprogettato la propria esistenza sulla prospettiva di vivere e lavorare in Israele: chi potrà dir loro: “abbiamo scherzato”?
  5. La questione della Striscia di Gaza: un fazzoletto di terra in cui vivono oltre due milioni di palestinesi, completamente scollegato dal resto della Cisgiordania, cioè dalla porzione prevalente del territorio dell’ipotetico Stato palestinese. Le drammatiche condizioni di vita della popolazione di Gaza hanno portato a una sempre maggiore radicalizzazione delle posizioni dei suoi rappresentanti politici, che trovano espressione soprattutto tramite Hamas, un’organizzazione politico-militare ancora considerata dalla comunità internazionale di stampo terroristico. La Striscia di Gaza, data la sua posizione geografica e la situazione politico-sociale, potrà mai far parte di un ipotetico Stato palestinese che convive pacificamente con Israele?

Credo siano queste le domande fondamentali (e sicuramente ho tralasciato qualcosa) a cui la comunità internazionale deve dare risposte se vuole davvero offrire una prospettiva concreta e duratura di superamento del conflitto israelo-palestinese. Finora, basandosi sulla consunta formula “due Popoli due Stati”, non è riuscita a farlo seriamente e forse è giunto il momento di cambiare paradigma e di tentare strade inesplorate, solo apparentemente più complesse, ma che possano garantire davvero una convivenza pacifica e duratura di quelle popolazioni. Forse è davvero giunto il momento di elaborare una nuova strategia e una nuova roadmapche riesca a coinvolgere tutti i soggetti interessati, puntando a isolare gli opposti estremismi (quelli che Amos Oz chiama “cari fanatici”) e lavorando a una grande operazione che è prima di tutto culturale, oltre che geo-politica.