27 Luglio 2024
Sun

Paolo Miorandi, L’unica notte che abbiamo, Exorma Editore 2020, pp. 252, euro 16

“Mi chiedo se ogni essere umano non sia per caso chiamato a prendere in consegna la voce di almeno un altro essere umano, se ogni vita non debba offrire la propria voce, per quanto flebile essa sia, ad almeno un’altra vita”. La risposta sta nel romanzo di Paolo Miorandi, L’unica notte che abbiamo, dove la voce narrante raccoglie le storie di famiglia raccontate da un’anziana signora incontrata per un errore che sembra voluto dal destino.

Il lettore rimane disorientato dalle prime voci narranti – non è ancora l’anziana-. I numerosi personaggi di questa famiglia sembrano conversare tra loro, e si riconoscono piano piano attraverso i riferimenti forniti da una prosa che trascina per la sua capacità di scendere nel profondo e per un registro sempre adeguato a situazioni, ambienti, personaggi. .

Emergono tutti dalla voce dell’anziana – è stata una accademica ma non sappiamo niente di più- che estrae, da una valigia recuperata dopo la morte del padre, vecchie foto in bianco e nero di antenati, fino ad arrivare all’ottocento.

Le voci ricostruite e dialoganti dunque sono voci di estinti, unico appuntamento reale e periodico è quello tra l’anziana e chi la ascolta e ne scrive, intervenendo con riflessioni personali in corsivo, come pause di ritorno al presente.

La vecchia ha un’età non definibile, si fa sempre più trasparente come se, depositando le storie di famiglia mai raccontate a nessuno -verità o fantasia?- si liberasse da una zavorra, per poi rimanere leggera:” una progressiva perdita di peso e sostanza, come se la materia greve e dolorante da cui il mio corpo era costituito andasse via via sgretolandosi per venire sostituita da una sostanza sottile ed eterea, di natura più spirituale che fisica, in un processo di mutazione”.

Ed anche le pause del suo interlocutore che fa sempre ritorno ad una misteriosa stanza bianca, ci danno nel tempo una sorta di spaesamento, di perdita di contatto con la concretezza, i riferimenti iniziali diventano discutibili e lasciano domande sul chi e sul dove.

I personaggi sono molteplici, ma si scava in ordine sparso, a seconda della foto tirata su dalla valigia, si va avanti e indietro nel tempo, come succede quando si ricorda: “ad ogni mia nuova visita, riprendendo il racconto, la donna non stabiliva collegamenti con quanto detto nelle occasioni precedenti e non si preoccupava di conferire alla storia un andamento lineare o un ordine cronologico; sembrava piuttosto che di volta in volta si lasciasse guidare dall’immagine che in quell’istante era affiorata alla superficie della sua coscienza e di cui cercava una sorta di corrispettivo tra le foto presenti sul tavolo”.

Comunque il punto di partenza è la nascita di Ernesto e di suo fratello Giovacchino pochi anni più tardi, figli di una serva che ha lavorato in un paesino di montagna e si è lasciata usare dal figlio del padrone: donnaiolo senza scrupoli, se ne va in Argentina dopo aver fissato il volto in un’unica foto accanto ad Ernesto piccolino ed alla donna che aspetta da lui il secondo figlio.

Lei, rimasta sola ed incapace di provvedere ai bambini, in un paesino sul lago consegnerà Ernesto ad una donna che le ha aperto la porta. Le ha chiesto il piacere di tenerglielo per il tempo di scendere al lago e tornare, poi non si è fatta più viva. Se ne perdono le tracce nel sud Italia, dedita a professioni discutibili. Il secondo figlio sarà messo in un istituto per bambini malati di mente, anche se lui non lo è. I fratellini finiscono entrambi per essere adottati da due maestre, nel paesino sul lago, due pie donne, Ernesto dalla maestra  Rabensteiner e Giovacchino dalla maestra Martini.

Di entrambi si seguono le vicende, recuperandone matrimoni falliti e vizi. Sono radici malate, forgiate fin troppo presto dall’abbandono e dal dolore, incapaci di un serio progetto di vita, eredi di genitori assenti, tendenzialmente anaffettivi ed egoisti: “mia figlia, ha un carattere che te lo raccomando, -sono parole di Ernesto- fin da quand’era bambina sono state discussioni su discussioni e a un certo punto io ne ho avute le palle piene e ho iniziato a evitarla, anche se lei ogni tanto si faceva sentire o veniva in uno dei miei bar”. A giustificare che “le famiglie sono il terreno di coltura ideale per ogni genere di malattia del corpo e dell’anima”.

La figlia di Ernesto e Georgette -la anziana che narra- ha avuto una vita di privazioni e umiliazioni da cui si è saputa riscattare con una estrema forza di volontà, combattendo contro il terrore di ricadere nella sperimentata miseria.

Le maestre che hanno accolto i bambini come un dono del Cielo vivono la propria sconfitta davanti alle scelte di vita dei figli, che sono figure inafferrabili, privi di senso di responsabilità, e ne subiscono le conseguenze anche a livello di salute fisica.

Ernesto è perseguitato dagli incubi della campagna di Russia fino alla fine dei suoi giorni in un letto di ospedale. Lì, nei deliri, emerge un aspetto di lui che non si conosceva: “non possono mica rimanere qui ad affondare nella merda questi ragazzi, hanno una casa da qualche parte, una madre che di notte se li sogna, che chiede a Dio di riportarli indietro, come se Dio avesse tempo per starla ad ascoltare in tutto questo casino che è diventato il mondo, cosa dite? che vi fanno male i piedi? anch’io non li sento più diocane, mi sono diventati freddi e duri, una spina di ghiaccio, fermarsi? non posso”.

Incapace di mantenere un lavoro pur avendone le capacità, ha trascinato le sue giornate nei bar. Ma ha sempre pensato a lasciare le briciole agli uccellini: “meglio che siano i cani randagi a trovarmi, mi si accucceranno vicino e mi leccheranno pietosamente le mani, e i piccioni mi frugheranno nelle tasche sapendo che ho sempre una pagnotta secca da sbriciolare per loro”.

Giovacchino ha fatto carte false per danneggiare il fratello e lo ha lasciato sul lastrico insieme alla moglie e alla figlia, segnando una divisione che durerà tutta la vita

Altri personaggi si profilano con grande ricchezza di particolari. Si scopre la maestra Rabensteiner, la sua fermezza nel rifiuto del fascismo, la sua capacità di rinuncia, ma anche il suo dolore segreto più profondo. Se ne capisce la radice del disagio di fronte ad ogni contatto fisico, tranne quello timido ma spontaneo con la manina di Ernesto, quando se lo è visto davanti piccolo, sudicio e spaventato.

Figure dolorose emergono, come Georgette, la moglie di Ernesto: persa nella nostalgia di una vita che si è vista negare, in Francia, cerca rifugio nella pittura e non sa occuparsi della figlia che viene educata a fatta studiare dalle maestre: “Non è un caso che, quando mi prende una certa vena di malinconica e luttuosa riconoscenza, penso esclusivamente a mia nonna Elisabetta da una parte e alla zia – la maestra Rabensteiner”.

Bella la figura della nonna materna, Elisabetta, che si prende cura della piccola quando torna sfinita da scuola e la porta a camminare nei campi: “Tra le bocche di

leone e i ciliegi, che a maggio aprivano i loro fiori e li lasciavano andare al vento che saliva dal lago e che solo percorrendo la via dei campi mi sembrava un vento buono e generoso, un vento che solo lungo la via dei campi smetteva di tagliare la pelle arrossata per confortarla, un braccio, quello di mia nonna Elisabetta, che in qualche modo mi ancorava alla terra e ancorandomi alla terra mi ancorava alla vita impedendo al vento di spezzare l’ultimo fragile filo con il quale vi ero attaccata”

Romanzo di dolore, di miseria, di difficili contatti umani, di sofferenze e privazioni estreme, su cui si posa il vento che viene da un lago trascinando con sé odore di marcio, che non dà spazio al respiro e ad un momento di speranza, mi ha riportato a Il dolore perfetto di Ugo Riccarelli.

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.