27 Luglio 2024
Voice of Jerusalem

Tel Aviv, collina della primavera

Oggi parliamo di Tel Aviv, del suo mito fondativo, di cosa c’era prima e soprattutto di cosa c’è stato dopo.

L’11 aprile 1909 alcune decine di famiglie ebree, socie di una cooperativa di costruzioni che aveva acquistato da un clan di beduini 5 ettari di dune sabbiose accanto alla vecchia città di Giaffa, partecipano all’assegnazione dei primi 60 lotti di terreno. Il presidente della cooperativa, Akiva Aryeh Weiss, raccoglie sulla spiaggia 120 conchiglie, metà bianche e metà grigie; su quelle bianche scrive i nomi delle famiglie, su quelle grigie i numeri dei lotti. Poi un ragazzo e una ragazza li estraggono da due scatole e accoppiano famiglie con terreni. Mentre sta accadendo questo, il fotografo Avraham Soskin è sulla duna opposta, preme il bottone, e lascia alla storia il primo momento della città di Tel Aviv.
La città fu originariamente chiamata con il nome della cooperativa di costruzioni, Ahuzat Bayit (che potremmo tradurre in «casa di proprietà»), ma nel 1910 fu adottato il nome di Tel Aviv, «collina della primavera». E qui si apre un mondo. La Bibbia riporta il nome di Tel-Aviv, era il luogo vicino alla città di Babilonia dove abitavano gli ebrei in esilio («Giunsi dai deportati di Tel-Aviv, che abitano lungo il canale Chebàr», Ezechiele 3:15). Ma Tel Aviv è anche il titolo ebraico di Altneuland («L’antica nuova terra»), un romanzo pubblicato nel 1902 in cui Theodor Herzl delineava uno Stato ebraico in Palestina. Lo tradusse dall’originale tedesco Nahum Sokolow, poi Presidente del Congresso sionista Mondiale e dell’Agenzia ebraica, che pensò alla «collina» come un cumulo di antiche rovine, corrispondente al «vecchio» (alt), e alla «primavera» come illustrante l’idea di rinascita latente nel «nuovo» (neu). Ed ancora, sempre guardando alla Bibbia, lo stemma della città contiene due parole del libro di Geremia: «Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine di Israele» (Ger 31:4).

Nei decenni successivi la città cresce molto, ma è con la conquista del potere di Hitler in Germania (1933) che la cittadina esplode. Questo, e la svalutazione della sterlina inglese dopo la Grande Depressione alimentano l’afflusso di capitale ebraico. La popolazione della città passa da quarantamila abitanti nel 1926 a centocinquantamila nel 1937 – poco più di un terzo della popolazione ebraica della Palestina – e la domanda di abitazioni continua a crescere sempre. Arrivano, o ritornano, dall’Europa anche giovani architetti che lì hanno studiato – tra questi Arieh Sharon che ha studiato al Bauhaus, Joseph Neufeld che ha lavorato con Mendelsohn a Berlino e con Bruno Taut a Mosca, Ze’ev Rechter che viene da Parigi, Carlin Rubin che pure lui è passato da Mendelsohn, Dov Karmi che ha studiato in Belgio, Shmuel Barkai che ha frequentato lo studio di Le Corbusier – e che formano un gruppo conosciuto come lo hug, il «Cerchio» degli architetti, e trasformano la città.

«In poco tempo – scrive Sharon – riuscimmo a infiltrarci nell’associazione di architetti e ingegneri, a introdurre e a organizzare concorsi per edifici pubblici e immobili residenziali, a costituire commissioni e persino a pubblicare una rivista d’architettura. Il tempo era maturo per la rivolta architettonica. Migliaia di immigranti ebrei avevano già assorbito in Europa le nuove idee progressiste. La situazione economica in Israele migliorava, l’impatto del nuovo circolo architettonico si fece immediatamente sentire. Divenne quasi di moda costruire in maniera modesta ma pura. Persino gli immobiliaristi di Tel Aviv iniziarono a pianificare e a costruire secondo la new wave» (Kibbutz + Bauhaus, 1976:48).
È così, e in quel momento, che Tel Aviv si trasforma nella «Città bianca» contenente una delle collezioni più impressionanti al mondo di architettura modernista. Oggi quella storia è nota, e la Tel Aviv contemporanea è strettamente identificata con lo «stile Bauhaus» (non sto qui a discutere sulla improprietà del termine). Eppure quella storia è in gran parte una fiaba e di origine abbastanza recente. Di questo ha scritto Sharon Rotbard («White City, Black City: Architecture and War in Tel Aviv and Jaffa», Pluto Press/MIT Press, 2015).
Affinché la città e la sua architettura diventassero il marchio internazionale che è oggi, Tel Aviv doveva riscoprire, forse anche reinventare, la sua storia. Nel 1984 al Museo d’Arte di Tel Aviv fu realizzata l’esposizione «White City, Black City». La mostra fu forse il primo tentativo di costruire una storia dell’architettura israeliana, e il momento in cui gli edifici di Tel Aviv furono dotati della magia del mito e della nostalgia.

Venti anni dopo (nel 2003, per la precisione), l’UNESCO avrebbe riconosciuto la collezione di edifici come la «Città Bianca», sito del patrimonio mondiale «eccezionale esempio di nuova urbanistica e architettura del primo Novecento, adattata alle esigenze di un particolare contesto culturale e geografico».
Quello che alcuni vedono come uno sforzo di «re-branding» di grande successo, Sharon Rotbard lo considera come un’imbiancatura selettiva e falsa della storia. Per Rotbard la «Città Bianca» è basata su una «re-immaginazione sognante e idilliaca» utile come mito fondativo, forse, ma solo vagamente basata su fatti storici.
Anzitutto, il vero colore della città, scrive Rotbard, è sempre stato «grigio pallido, oppure un monocromo sporco opaco nel peggiore dei casi, ma certamente non bianco». Rotbard rifiuta anche l’idea convenzionale che la città sia «emersa dalle dune», costruita su una tabula rasa. Il quartiere di Ahuzat Bayit è al contrario nato come sobborgo di Giaffa, allora capitale economica e culturale della Palestina, un ambiente urbano denso e diversificato.
Inoltre, per Rotbard i creatori del mito peccano di omissione. Sebbene la «Città Bianca» sia stata in gran parte identificata con Tel Aviv nel suo insieme, in realtà lascia fuori quelle parti della città che non si adattano alla sua narrativa, cioè le aree più svantaggiate a sud di Tel Aviv e Giaffa, quelle che Rotbard chiama «Città Nera».

Molti quartieri della «Città Nera» sono stati costruiti parallelamente alla «Città Bianca», negli anni ‘20 e ‘30. Altri hanno addirittura preceduto la fondazione di Ahuzat Bayit. Eppure sono stati cancellati dalla narrativa ufficiale. Rotbard afferma che l’establishment comunale ha trascurato e distrutto gran parte del suo ambiente costruito, a partire da vaste aree di Giaffa araba durante e dopo la Guerra d’Indipendenza del 1948. Nel 1949 fu presa la decisione di demolire l’intera città vecchia di Giaffa. Dopo essere stata svuotata della sua popolazione araba originaria, l’area si è rapidamente riempita di immigrati ebrei, e le autorità la consideravano una baraccopoli poco igienica e sovraffollata. La decisione, però, è stata attuata solo in parte. Negli anni ‘60, dopo che i suoi ultimi abitanti furono trasferiti in edifici di edilizia popolare di nuova costruzione, le strade e gli edifici sopravvissuti della città vecchia sono stati convertiti in una colonia di artisti e in un’attrazione turistica.
Altre aree della «Città Nera» sono state prese di mira per progetti di sviluppo. È il caso del quartiere di Neve Sha’anan, che fino agli anni ‘60 aveva un carattere placido, semi-agricolo, con strade piacevoli disposte a forma di menorah. Poi si è permesso di costruire un enorme terminal degli autobus nelle vicinanze. Completata negli anni ‘90, la nuova stazione centrale degli autobus è ora odiata e incolpata di aver trasformato il quartiere in uno slum e un posto da evitare.

Naturalmente, molto è successo a Tel Aviv da quando il libro di Rotbard è stato pubblicato per la prima volta (l’originale teso in ebraico è del 2005). La «gentrificazione» ha divorato gran parte del centro città e ora sta colonizzando in modo aggressivo anche parti di Giaffa. Migliaia di rifugiati africani sono arrivati in città, stabilendo la loro casa all’ombra della nuova stazione centrale degli autobus.
Ma il centro di Tel Aviv riceve ancora oggi un’alta quota di investimenti comunali, mentre il sud ospita ancora criminalità, inquinamento e altre forme di degrado urbano, E l’intuizione centrale del libro, la dicotomia tra «Città Bianca» e «Città Nera» regge ancora, più che mai.