27 Luglio 2024
Words

COp26, ecologia di facciata

Non sarà una grade conferenza, dove saranno affrontati in concreto temi e saranno sviluppate azioni per contenere il climate change. Alla conferenza internazionale di Glasgow, che si aprirà domenica 31 Ottobre 2021, con molta probabilità andrà in scena una rappresentazione puramente simbolica della lotta ai cambiamenti climatici. Dal palco del vertice di Cop26 siamo destinati ad ascoltare tanta narrativa mielosa, qualche mea culpa e poca sostanza nell’azione. Difficile aspettarsi qualcosa di diverso, e minimamente “rivoluzionario”.
A incidere negativamente sui risultati di questo atteso evento, che avviene in doppia emergenza, sia ambientale che pandemica, è ancora una volta l’attitudine degli stati meno virtuosi. Destinati a svuotare completamente lo schema di riduzione delle emissioni introdotto dagli accordi di Parigi, in era obamiana e pre trumpiana.

A tirarsi fuori dagli obblighi sono proprio le due principali potenze industriali al mondo, USA e Cina, che avrebbero invece dovuto dare il “buon esempio”, impegnandosi a tracciare la via da seguire.
La cattiva notizia del nuovo green deal di Biden: il pacchetto iniziale prevedeva una rapida transizione dalle centrali carbone/gas al massiccio impianto di fotovoltaico, eolico e nucleare, causa ostruzionismo e defezioni all’interno delle file dei democratici, è stato azzoppato nel suo percorso. E così Biden è stato costretto a spezzettare il suo mastodontico progetto per ottenere che almeno una parte possa essere recuperata nella legge di bilancio.

L’inquilino della Casa Bianca ha annunciato di aver portato a 555 miliardi di dollari il suo impegno in favore del clima, lo scoglio è il voto al Congresso la prossima settimana. Con il rischio, se non dovesse passare, di veder minata sia la credibilità della visione di multilateralismo abbracciata recentemente da Biden che la sua leadership nel partito. A prescindere dall’esito dell’aula di Washington, condizionato dalla ferma opposizione dei moderati come dei franchi tiratori democratici, è evidente che si pone un serio problema di definizione della strategia nella salvaguardia del Pianeta.
Non meno deludente è l’enigmatica posizione del presidente cinese Xi Jimping, che non parteciperà ai lavori di Glasgow. Nel 2020 aveva promesso che il picco di emissioni sarebbe stato raggiunto entro il 2030, e l’emancipazione dal carbone sarebbe avvenuta nel 2060. Poche settimane fa ha invece reso noto che la Cina (da oltre un decennio al vertice mondiale di emissioni di gas serra) non si sarebbe impegnata nella realizzazione di centrali inquinanti all’estero. Obiettivi che nel loro insieme avrebbero potuto incidere in modo determinante. Invece, per Pechino porre fine alla dipendenza dal carbone si è rivelato un labirinto, da cui è impossibile uscire. Se non al prezzo di un costo che avrebbe un effetto a catena sull’economia globale.

La crisi energetica scoppiata a settembre ha messo in evidenza il dilemma amletico sull’uso del carbone. Per rispondere alla domanda di energia, e garantire sufficiente approvvigionamento durante l’inverno, il governo comunista cinese ha disposto, e ordinato, l’aumento della produzione: 100 milioni di tonnellate di carbone in più estratto dalle proprie miniere a ottobre. Fino a quando il carbone resterà la fonte primaria tutto è relativo, ed effimero.
Sei anni fa a Parigi prevalse lo spirito di cooperazione, per la prima volta 196 stati adottarono il raggiungimento dello “zero netto” entro il 2050. Anche se le modalità applicative erano abbozzate ed astratte, il successo geopolitico di quella operazione risuonava incontrovertibile. Alla fine ci accorgemmo di esserci lasciati troppo entusiasmare dall’ottimismo. Nei prossimi giorni, con la riunione del G20 e successivamente con il summit scozzese, la questione climatica verrà approcciata in modo diametralmente opposto rispetto al passato.

Il perimetro invece di allargarsi si è ristretto notevolmente: è venuta la meno la solidarietà nel sostenere gli investimenti climatici nei paesi in via di sviluppo, distante la soglia preventivata di 100 miliardi di dollari l’anno in aiuti; i piani di decarbonizzazione, fatta eccezione per la Commissione Europea, tardano a delinearsi; la prospettiva di rimanere entro 1,5 ° C di riscaldamento è considerata utopica; le politiche nazionalistiche e sovraniste anche in materia energetica hanno preso il sopravvento; Cina ed USA non dialogano su nulla; il finanziamento al contrasto del climate change necessità di linfa e sforzi aggiuntivi.
Infine, manca qualcuno che con responsabilità interpreti il ruolo di leader nell’affrontare l’emergenza. Ci proveranno Roma e Londra, Draghi e Johnson, vedremo con quali ambizioni e risultati.

[da Huffington Post]