16 Ottobre 2024
Culture Club

Il “campo teorico” al termine della notte

“Quel che si scopre su una spiaggia ridente, quando il mare si ritira: la verità, stagni dalle grevi puzze, granchi, carogne e stronzi”: non ci va giù leggero Louis-Ferdinand Céline in questo suo Viaggio al termine della notte, romanzo cominciato a scrivere nell’anno stesso del crack di Wall Strett: inizio della Grande Depressione che aggredì tutto il mondo. E da Grande Depressione ad affermazioni del tipo “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte”, “La vita è un delirio tutto pieno di menzogne”, alla messa in scena di personaggi (di contorno) deliranti, sbagliati, irrisolti, fino alla consacrazione di un io-narrante (un certo Ferdinand Bardamu) che parla così di sé stesso: “Pensandoci adesso, a tutti i matti che ho conosciuto dal vecchio Baryton, non posso fare a meno di dubitare che esistano altre autentiche realizzazioni del nostro  io più profondo che non siano la guerra e la malattia, questi due infiniti dell’incubo. La gran fatica dell’esistenza non è forse insomma nient’altro che questo gran darsi da fare per restare ragionevoli venti, quarant’anni, o più, per non essere semplicemente, profondamente sé stessi, cioè immondi, atroci, assurdi. L’incubo di dover sempre presentare come un piccolo ideale universale, un superuomo da mane a sera, il sottouomo zoppicante che ci hanno dato”.

Il romanzo si dipana (sorretto da uno stile impeccabile) in una maniera innovativa per la letteratura e attenta, anche al preciso percorso delle cose, che le cose mettono in campo (teorico) quando si trovano a contatto con gli esseri umani.
“In qualche mese come cambia una camera, anche quando non si tocca niente. Per quanto vecchie, per quanto degradate siano, le cose, trovano ancora, non si sa dove, la forza di invecchiare. Tutto era già cambiato intorno a noi. Non gli oggetti al loro posto certo, ma le cose stesse, in profondità. Sono diverse quando le ritrovi le cose, loro possiedono, si direbbe, più forza per andare dentro di noi, più tristemente, più profondamente ancora, più dolcemente di prima, per fondersi in quella specie di morte che nasce lentamente in noi, quietamente, giorno dopo giorno, vilmente, davanti alla quale ci si prepara ogni giorno a difendersi un po’ meno del giorno prima. Da una volta all’altra, la si vede frollare, raggrinzirsi in noi stessi la vita, gli esseri e le cose insieme, che avevamo lasciato banali, preziosi, temibili qualche volta. La paura della fine ha marcato tutto con le sue rughe mentre trottavamo per la città dietro il piacere o il pane. Presto non ci saranno più che persone e cose inoffensive, miserande e disarmate tutt’intorno al nostro passato, altro che errori diventati muti”.

Ma quella fra le persone e le cose non è la sola “relazione” che costella questo formidabile romanzo. Vi è anche, infatti, la relazione (costitutiva) tra Ferdinand Bardamu e la morte: in questo senso il protagonista del libro (scritto tra il 1929 e il 1932) è intrinsecamente plurale. Ma qual è la “condizione” (in campo teorico, cioè letterario) tra un uomo e la propria morte o, più largamente, la condizione multipla di un essere umano?
“Non si può sperare di mollare la propria pena in qualche angolo di strada. È come una donna mostruosa la Pena, e tu te la sei sposata. Forse è ancora meglio finire per amarla un po’ invece di dannarsi a picchiarla tutta la vita. Perché è chiaro che non la puoi accoppare”. Ferdinand Bardamu è “un’anima in pena”, “fa pena”; è uno per cui “non ne vale la pena”.
Nel “campo teorico” (cioè, in questo caso: strettamente filosofico) Céline non è un granché. Ma è veramente grande nella sconclusionatezza della trama, nella gratuità dei gesti (come quello che il protagonista mette in campo quando sceglie di partire per la Prima Guerra Mondiale), nella delirante delineazione di atmosfere malsane e decadenti (come nel racconto delle avventure africane di Bardamu).
In effetti il protagonista si sposta lungo tre continenti (Europa, Africa e America) e, dentro essi: in numerose città: Parigi, New York e Detroit fra le altre. E nello stesso tempo Céline si muove – attraverso il ciclo delle stagioni – dentro una narrazione mortifera, desolata, atroce, greve. Si diceva che “su una spiaggia ridente” si scoprono “carogne e stronzi”, ma non solo su di essa: l’amore è annullato, la vita è una darsi da fare per nulla e per un nonnulla si muore o si sta male.

Già a partire dal titolo, Viaggio al termine della notte – isolandone i tre elementi costitutivi – si può evincere la mission dell’intero romanzo.

Viaggio? “Un altro paese, altra gente intorno a te, agitata, in un modo un po’ bizzarro, qualche piccola vanità in meno, disperata, qualche orgoglio che non trova più la sua ragione, la sua menzogna, la sua eco familiare, e non occorre altro, la testa vi gira, e il dubbio vi attira, e l’infinito si spalma solo per voi, ci cascate dentro … Il viaggio è la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola vertigine per coglioni”. O ancora meglio: “Non era più un viaggio, era una specie di malattia”.

Termine? “Quel che è peggio è che uno si chiede come l’indomani troverà quel po’ di forza per continuare a fare quel che ha fatto il giorno prima e poi già da tanto tempo, dove troverà la forza per quelle iniziative sceme, quei mille progetti che non arrivano a niente, quei tentativi per uscire dalla necessità opprimente, tentativi che abortiscono sempre, e tutti per arrivare a convincersi una volta per tutte che il destino è invincibile, che bisogna sempre ricadere ai piedi della muraglia ogni sera, sotto l’angoscia dell’indomani, sempre più precario, più solido. Forse è anche l’età che sopraggiunge, traditore, e ci annuncia il peggio. Non si ha più molta musica in sé per far ballare la vita, ecco tutta la gioventù è già andata a morire in capo al mondo, nel silenzio della verità. E dove andar fuori, me lo chiedo, quando uno non ha più dentro una quantità sufficiente di delirio? La verità è un agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere, morire o mentire. Non ho mai potuto uccidermi io”.

Notte? “Quanto a me economizzai questo voglia di sonnecchiare e me la conservai per la notte. Le paure che sopravvivono durante il corso della giornata allontanano troppo spesso il sonno e quando si ha fortuna di costituirsi, finché si può, una piccola provvista di beatitudine, bisognerebbe proprio essere degli idioti per sprecarla in futili sonnecchia menti anticipati. Tutto per la notte! È il mio motto! Tutto il tempo, bisogna pensare alla notte”.

Mettendo un po’ insieme tutti questi elementi si ha un mondo scabro, scavato o, come dice lo stesso Céline, un “buco” all’interno del quale c’è anche posto per due omicidi (anzi uno dei due è un femminicidio), molte vanterie, poca speranza, la compagnia costante della morte, la scelta tra la menzogna e la morte, il pensiero costante della notte e tutto questo non è alla fine che una “piccola vertigine per coglioni”. Sembra di sentire recitare le sue litanie a Charles Bukowski…

In definitiva che cos’è questo romanzo? Geniale nella trama (così indifferente e asettica da apparire normale), pregevole – come detto – nello stile della scrittura, prevalentemente musicale, inconsistente in quanto a scelte di coerenza e congruità.
Viaggio al termine della notte non è un romanzo realista e neppure naturalista o verista, è il romanzo più “vero” di tutta la storia della letteratura mondiale. In “campo teorico” il romanzo è una vera e propria esplosione della “verità”, che come è detto in Giovanni 8,32 dovrebbe essere quella cosa che ci “renderà liberi”.
Ferdinand Bardamu, in verità, “libero” non è. “Risalii alla luce per quegli stessi gradini per riposarmi sulla stessa panchina. Orgia repentina di digestioni e volgarità. Scoperta del comunismo allegro della cacca”.

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.