13 Ottobre 2024
Sun

Jón Kalman Stefánsson, Quando i diavoli si svegliano dei, Iperborea 2023, pag. 160, € 17,00. Traduzione dall’islandese di Silvia Cosimini, testo originale a fronte.

“La vita deve essere l’unico scopo/lo so […] perché lo scopo non può essere/morire, semmai vivere in modo che/la morte ti tramuti in stella,/ti tramuti in luce,/dentro coloro/che ami”. Non si può prescindere da questa citazione dopo la lettura delle poesie di Jón Kalman Stefánsson, che con i suoi romanzi ha portato i lettori nella vastità dei ghiacci e nel fascino arcaico dell’Islanda.

Ora prevale il buio, le lunghe notti invernali, un appartamento al terzo piano nel nord del mondo in compagnia di un cane, dove lo raggiungono voci e rumori dei vicini, da dove osserva gli operai che lavorano in strada.

Con un versificare di ampio respiro con cui dialoga con i suoi dubbi, le sue ipotesi, le sue scoperte, raccoglie i gesti del quotidiano, i fatti concreti, i dati numerici, e dà loro la leggerezza della parola poetica.

In realtà è la rappresentazione di un mondo in rovina quello che prevale, con i ghiacciai che si sciolgono – anche loro destinati a morire a breve, come il suo vicino che tossisce in modo disperato -, con il Mediterraneo pieno di annegati, con i mari di plastica, gli attentati terroristici, con l’arroganza che ha sostituito l’onestà, con il trionfo della “crescita economica” e del “capitale”, con la connessione che ci lega tutti, nella assenza sempre più preoccupante di umanità e di sani principi.

Siamo carichi di sensi di colpa per ciò che abbiamo vissuto, per come abbiamo vissuto, quando abbiamo fatto scelte senza pensare alle conseguenze. Dobbiamo provare nostalgia di ideali dimenticati, oggi che si vive in un caos indistinto di angeli e diavoli? Sensibilità e forza sono necessarie per vivere, e di fronte al declino, in un presente “autistico e miope”, si deve ritrovare la bellezza delle azioni quotidiane, mai si deve sprecare la vita perché la morte è sempre presente, e il tempo che scappa via veloce ne distende l’ombra su uomini, animali e cose: bisogna avere cura della vita, perché è breve, e avere il coraggio di fare scelte con la testa libera, mentre “il tempo ti rode le dita dei piedi”.

Un mondo diviso, agli occhi di Stefánsson, è quello in cui ci ritroviamo a vivere, dove si contrappongono il dio dei carri armati, degli interessi, della diffidenza – quello che abbatte le metropoli – e un dio a cui piace “camminare a piedi nudi nell’erba, apprezza una birra fredda al sole”, che è “anche il cane che fa bei sogni/il caffè che sale/la libertà del disaccordo/il bambino che torna a casa da scuola […] il primo vive perché non osiamo fare altro/ che credergli/il secondo perché bisogna pure che esista/il rossore mattutino sui monti”.

Se la vita cammina a braccetto con la morte, importante è mantenere i ricordi che sono la nostra forza vitale, perché ogni volta che dimentichiamo muore qualcosa di noi: purtroppo “dimentichiamo in media/il novantatré per cento/della vita che viviamo”.

Sotto un cielo di gennaio che è “un bastimento carico di buio, sono di consolazione la musica e il sorriso di un bimbo che ha la forza di fendere il nero “come una stella cometa”. E poi “succede sempre qualcosa/e spesso c’entra l’amore/che è – insieme al cane -/il migliore amico dell’uomo”. La compagnia del cane colma assenze dolorose e aiuta a ritrovare il senso di un percorso: i cani “ci spronano/ a essere/persone che meritano di vivere”.

Non è tutto perduto in questo estendersi del vuoto e del buio, perché rimangono sempre l’impegno dell’uomo e la sua forza di volontà: “Quindi devo impegnarmi di più/ a trovare le parole per ciò/che trasforma il mondo/che trasforma il cuore in/ una stella cometa/un fondale marino/un poggio odoroso/un monte tremante/una legge che se la ride/e nel desiderio di te”.

Impegnarsi a trovare la parola della poesia – per Stefánsson i cui romanzi  sono carichi di leggerezza poetica – significa mantenere uniti due universi, quello dei vivi e quello dei morti: se non sappiamo nulla della morte, “se sia tutto o niente” – dove la congiunzione o si carica di enorme responsabilità – siamo certi però  che la poesia passa nel mondo di là e porta notizie della vita, del canto degli uccelli, degli alberi, è eterna: “La poesia/è l’unico testo che i morti/riescono a leggere, l’unico che arriva/ di là, e per questo/i poeti/ sono le celebrità dell’eterno, lascia perdere/le stelle del cinema, lascia perdere i potenti/i leader, i campioni sportivi/ il loro ascendente si ferma alla morte/là dove i poeti hanno appena iniziato”.

Un concetto di eternità della poesia che sembra forzare addirittura i confini di foscoliana memoria: “finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.