13 Ottobre 2024
Sun

Beatrice Monroy, Notte, giorno, notte – Giulio Perrone Editore 2022, pag. 152, € 18,00.

 

Nei ringraziamenti dell’ultima pagina Beatrice Monroy parla di coraggio, quello che le hanno dato i suoi “maestri di cammino” per “portare avanti questa storia crudele”.

La storia di Notte, giorno, notte si colloca nel 1993 – anno successivo alla strage di Capaci e di Via Amelio -. Ci troviamo nell’appartamento di un palazzone, nella parte nuova di città siciliana lasciata anonima, costruita in tutta fretta oltre le rovine della città vecchia, in seguito all’istituzione della Regione a Statuto Autonomo, nel 1946, dopo la seconda guerra mondiale.

Matilde e Federico, Carla e Roberto, sono figli di famiglie trasferitesi allora nei palazzoni in costruzione, via dai paesini sperduti nelle campagne, dove qualcuno che comandava sceglieva gli impiegati da portare negli uffici e assessorati della Regione appena nata: Tu, tu, tu…, senza che ci fossero concorsi pubblici.

Le madri hanno sempre ripetuto ai figli che c’era chi controllava tutto, gli stessi che avevano aiutato gli americani: “Loro avevano aiutato gli americani, questo lo sapevano tutti, perché quando entrarono i carri armati, loro ci stavano seduti sopra e già avevano l’aria da padroni […]. E padroni sono rimasti”. Il periodo della guerra trascorso in paese era stato “una strana libertà” invece “adesso eravamo di nuovo prigionieri”. E si sparava in questa città di cemento, e “si moriva peggio di prima della guerra”.

Ma non si parlava, il silenzio delle famiglie era percorso solo da nomi sussurrati dai mariti alle mogli; le figlie erano strappate via dai luoghi della carneficina, le madri a coprire i loro occhi, a imporre loro di tacere davanti alla polizia, soprattutto se avevano visto, anche se a morire in un lago di sangue era stato il padre davanti agli occhi di una bambina, Carla.

Carla è cresciuta come amica inseparabile di Matilde che ne ha ascoltato i racconti drammatici, l’ha aiutata cercando di capire le ragioni del suo malessere e del carattere sempre più irrequieto, mutevole. Sua madre preferisce parlare di una malattia mentale, per proteggerla: “Mia figlia non ha visto niente, è fragile di cervello”. Vive nel terrore che si metta a parlare e ne subisca le conseguenze.

Ma Carla vuole arrivare ai responsabili, al mandante dell’assassinio di suo padre, anche a costo di scoprire verità scomode su di lui. Perché l’avevano tolto di mezzo? In che cosa era coinvolto? Chi era stato quel padre che la portava in giro per la città da piccola, tenendola per mano?

Intanto per le strade si continua a morire, un giornalista scompare nella notte, nei palazzoni si vive nel silenzio e nella paura: “La paura si è annidata dentro di noi. Noi siamo la paura”.

Matilde invece non vuole sapere niente di quello che accade intorno, vuole la sicurezza della sua famiglia benestante, con il figlio da seguire, con una giovane, Rosetta, che l’aiuta in casa, mentre il marito Federico, imprenditore edile, sta fuori fino a tarda sera e lei lo vede poco e non chiede e non sa niente di quello che fa.

Davanti agli striscioni che pendono dai palazzi dopo le stragi – No alla mafia-, “sono tutte cretinate, non ti permettere di aderire”, le impone Federico.

Del resto “a quel vociare che è seguito alla stragi io non ho partecipato, mi è sembrato inutile, non mi riguarda”. Addirittura Matilde prova irritazione davanti a lenzuoli accusatori: “Mi è sembrato che profanassero la memoria dei miei genitori. Un segreto custodito per decenni adesso veniva strombazzato da quei panni sciorinati”.

Gli appartamenti delle due coppie hanno i balconi confinanti. In un’estate infuocata Matilde trascorre cinque notti sul balcone, sulla sedia a dondolo, in cerca di un filo d’aria. Nel silenzio la raggiungono le parole concitate di Carla e quelle preoccupate di Roberto, frasi talora smozzicate o interrotte da un improvviso serrare di finestre. Sono rivelartici di segreti paurosi e impronunciabili, che hanno perseguitato e continuano a perseguitare la vita di Carla, ma fanno luce anche su quella di Matilde, la costringono a riconoscere verità drammatiche sulla propria famiglia, che forse ha sempre conosciuto ma ha rimosso per interesse personale, secondo il principio omertoso del non vedo, non sento, non parlo: chi è quell’uomo che le dorme a fianco? Che cosa ha visto e sa Carla? Chi è Rosetta?

La Monroy offre al lettore pezzi di verità che filtrano da una finestra, frasi rubate nella notte, gridate da una donna ritenuta pazza che non ha voluto mai portarle alla luce, sopportando un peso che lentamente la distrugge.

Matilde, borghese rispettata che ha costruito un’immagine di famiglia perfetta, rimane a fare i conti con una verità scomoda, mentre i ricordi tornano vivi col colore del sangue: ci poteva essere una strada diversa? Quale atroce eredità hanno ricevuto dai genitori? Loro, quelli della nuova generazione, sono capaci di cambiare le cose?

“Noi non abbiamo bisogno di tutti questi ricordi. Rimane la vita giorno dopo giorno. Una vita smemorata la mia, ma, in fondo, che male c’è?” si consola Matilde.

Romanzo d’accusa all’omertà, che scoperchia le radici del male, la violenza, i rapporti di sudditanza, la difficoltà delle scelte bloccate dalla paura, il furto della libertà: piaghe che purtroppo non sono ancora scomparse dalla nostra società, aperte e quasi vivisezionate dalla Monroy, in un momento della Storia del nostro Paese in cui ci voleva coraggio a pronunciare la parola mafia, quando anche le Istituzioni erano recalcitranti ad ammetterne l’esistenza.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.