25 Aprile 2024
Culture Club

Leonard Cohen, un monaco della poesia

Nell’autunno del 2004 Lorca Cohen, la figlia minore di Leonard, incontrò per caso un amico, che lavorava nell’ufficio di Kelley Lynch, la manager che curava gli interessi del padre, e che maneggiava tutti i suoi soldi. Si sentì dire: “Fate un controllo accurato sulla situazione finanziaria, perché c’è qualcosa di poco chiaro”. Un’analisi rapida mostrò invece che la situazione era chiarissima: Cohen era sul lastrico, non gli rimaneva nemmeno un dollaro, nemmeno i soldi con cui pagare le tasse. Questa disavventura segnò l’inizio della seconda vita di Leonard Cohen, che ci aveva messo quasi tutta la durata della prima a liberarsi dalla depressione, e che dovette rimettersi al lavoro per non andare in rovina. Gli anni Duemila però non erano gli Ottanta, i dischi non si vendevano più, e per guadagnare davvero bisognava fare i concerti. Così questo canadese riservato, che aveva sempre sofferto i tour per la convinzione di non riuscire mai a dare abbastanza al pubblico, fu costretto a rimettersi sulla strada.

 

Ci vollero ancora anni perché gli amici e i collaboratori riuscissero a convincerlo, ma alla fine, dopo una serie infinita di prove meticolose e un concerto numero zero a Fredericton, una cittadina canadese (Cohen disse “First we take Fredericton, then we take Berlin”, giocando col refrain di una delle sue canzoni più famose), nel 2008 partì un tour trionfale che lo portò in tutto il mondo per un paio d’anni, e poi di nuovo tra il 2012 e il 2013.

È così che molti di noi lo hanno incontrato di persona la prima volta, per via di una manager che aveva gestito disinvoltamente i suoi soldi, fino a farli sparire. Nel momento in cui Cohen fu informato del tracollo economico, commentò così: “È quanto basta per intaccare l’umore”.

Questa reazione, integrata qualche anno dopo da un chiarimento (“Per fortuna non fu così”) serve per capire un uomo e un autore complesso come Leonard Cohen. Un poeta che ha indagato fin da subito gli abissi delle sofferenze umane, che ha messo in scena il conflitto tra uomo e donna, la crudeltà della guerra, il dolore del tradimento e della separazione, e che però non ha mai rinunciato a due componenti fondamentali: l’ironia e la speranza. Lo ha fatto anche riferendosi alla dimensione divina, senza mai dichiararsi credente (“Non sono religioso – ha detto nell’ultima conferenza stampa della sua vita – ma quello è il paesaggio in cui sono sempre vissuto”) eppure scrivendo canzoni impregnate di tensione spirituale, fino a all’esplicita title track dell’ultimo album (“You want it darker”) in cui canta “I’m ready, my Lord”, e in cui ripete continuamente “Hineni”, indossando i panni di Abramo che risponde al signore “eccomi” di fronte alla richiesta di sacrificare il figlio Isacco.

 

Leonard Cohen è un curioso punto d’incontro tra la depressione, l’umorismo, la speranza, l’ironia, la spiritualità. Il suo primo libro di poesie, uscito nel 1956 (undici anni prima del disco d’esordio), squadernava già alcuni dei temi che gli sarebbero stati cari per sempre, come la sacralità del rapporto tra uomo e donna, dell’unione carnale tra due persone. La prima tra le sue canzoni a diventare famosa, “Suzanne”, parla di un incontro tra Leonard e la compagna di un suo conoscente, eppure subito dopo parla di Gesù che salva gli uomini camminando sull’acqua. Quando nel 1967 uscì quell’album, “Songs of Leonard Cohen”, il cantautore aveva già trentatré anni, era vecchio per essere una stella del rock, e poi la sua musica era fuori dal tempo, fresca e antica insieme, non dava alcuna delle risposte che i giovani di quella generazione si aspettavano dalle canzoni. Nel 1970, all’Isola di Wight, quando si trovò a suonare in piena notte, di fronte a una marea umana inferocita per i malfunzionamenti del festival, che aveva appena preso a bottigliate Kris Kristofferson, ipnotizzò tutti con un lungo preambolo in cui chiese di accendere un fiammifero, per vedere tante fiammelle, e poi si esibì in un concerto memorabile, immortalato quarant’anni dopo in uno splendido dvd.

Nel 1972, in un altro tour, interruppe diversi concerti perché non si sentiva in grado di soddisfare il pubblico, offrendosi di restituire i soldi del biglietto di tasca propria. Il film di Tony Palmer “Bird on a wire” racconta perfettamente uno di questi momenti: Cohen dal palco avverte gli spettatori che tornerà in camerino con la band. “Proveremo a rimettere insieme i pezzi per finire questo concerto, ma se non ci riusciremo vi dico subito buonanotte”. Nel retropalco, convinto dai collaboratori, Cohen seguì un consiglio che gli aveva dato sua madre molti anni prima: quando tutto va storto, fermati, smetti di fare ciò che stai facendo, spalmati la schiuma sul viso e fatti la barba. E Leonard, da bravo figliolo, in quella notte a Gerusalemme si rasò con una lametta, si prese una punta d’acido ritrovata nella fodera di una chitarra, e concluse l’esibizione fra le lacrime.

 

Il Cohen che abbiamo visto da vicino nel 2008 e negli anni seguenti era un’altra persona. La depressione se n’era andata, “Hallelujah” era diventata una hit mondiale grazie alla cover di Jeff Buckley, dischi come “I’m your man”, “The Future” e “Ten New Songs” avevano avuto uno straordinario successo, e lo spettacolo portato in giro era quanto di più perfetto e curato ci si potesse immaginare. Soprattutto nelle prime date, tutto faceva parte di un copione rigidissimo: ogni singola nota, ogni assolo, ogni gag, erano ripetuti senza lasciare spazio alla spontaneità e alla sorpresa. Quei concerti però avevano un grande pregio rispetto a quelli dei decenni precedenti: ora Leonard amava suonare da vivo, si divertiva a stare di fronte alla gente, tanto che la scaletta nel corso dei mesi si gonfiò a dismisura, superando spesso le tre ore di musica.

Per chi aveva consumato i vinili con “Bird on the wire”, per chi aveva ascoltato migliaia di volte la lettera scritta all’amante della moglie (o di una moglie) in “Famous blue raincoat”, per chi aveva pianto di fronte alla prostrazione della preghiera “If it be your will”, quei concerti (personalmente l’ho visto tre volte, due a Lucca e una a Firenze) sono stati un regalo indimenticabile, da custodire tra i ricordi più preziosi, quando si parla di musica, o di sentimenti.

 

Oggi la notizia della morte ci priva di una voce potentissima, di un compagno di viaggio a cui non si poteva non volere bene, di uno sguardo sul mondo spietato e allo stesso tempo protetto da una speranza finale. Se fossimo capaci di conquistare la sua serenità, potremmo dire che è quanto basta per intaccare l’umore. Lui farebbe così, dietro a un sorriso sornione.