28 Aprile 2024
Poetry

La tempesta, e dopo. Una poesia di Emily Dickinson

There came a wind like a bugle;
It quivered through the grass,
And a green chill upon the heat
So ominous did pass
We barred the windows and the doors
As from an emerald ghost;
The doom’s electric moccasin
That very instant passed.
On a strange mob of panting trees,
And fences fled away,
And rivers where the houses ran
Those looked that lived—that Day—
The bell within the steeple wild
The flying tidings whirled.
How much can come
And much can go,
And yet abide the world!

 

Con un suono di corno
il vento arrivò, scosse l’erba:
un verde brivido diaccio
così sinistro passò nel caldo
che sbarrammo le porte e le finestre
quasi entrasse uno spettro di smeraldo:
e fu certo l’elettrico
segnale del Giudizio.
Una bizzarra turba di ansimanti
alberi, siepi alla deriva
e case in fuga nei fiumi
è ciò che videro i vivi.
Tocchi del campanile desolato
mulinavano le ultime nuove.
Quanto può giungere,
quanto può andarsene,
in un mondo che non si muove!

 

Che la traduzione di una poesia possa passare meglio attraverso la voce di un altro poeta, che di un traduttore, è un fatto ormai ampiamente riconosciuto, e la ragione, tanto semplice quanto evidente, è che la poesia è nello stesso tempo “intraducibile” (più di qualsiasi altro discorso umano: forse solo i proverbi, concentrato della profonda cultura millenaria del genere umano, possono rivaleggiare) ma sempre “interpretabile”, e non esiste lettore più sensibile di un poeta a potersi impegnare audacemente in quest’impresa. Perciò mettendo a fianco della bella poesia della Dickinson la versione di Montale (già in Quaderno di traduzioni, Edizioni della Meridiana, 1948; ora ripubblicata in Quaderno di traduzioni, a cura di E. Testa, Il Canneto, 2018) mi son venute da fare alcune osservazioni non tanto in merito alla differenze fra le due diverse e ugualmente grandi personalità poetiche, quanto in relazione all’importanza per entrambe di quella cornice più ampia rivelata dalla natura in cui si svolgono le vicende umane, sullo sfondo di quella inverosimile pantomima della storia in cui cerchiamo, non di rado invano, il senso delle nostre azioni.

E allora quale evento, meglio di una “tempesta” – per cui è d’obbligo il rimando all’idillio di Leopardi, La quiete dopo la tempesta – poteva prestarsi a queste osservazioni? In che termini si può riflettere sulla quiete come esito possibile di una tempesta che, di là da ogni traslato meteorologico, sembra rimettere in discussione ogni certezza? In verità, la poesia di Leopardi parte proprio là dove quella della Dickinson si ferma, nel riconoscimento che, dopo tutto, yet abide the world, là dove il poeta italiano descrive gli augelli far festa, il sereno rompere da ponente, il paesaggio sgombrarsi dalle ombre cupe delle nuvole, il fiume riapparire chiaro nella valle: e così, «in ogni lato / risorge il romorio / torna il lavoro usato». Se a Leopardi interessa la contemplazione del dopo, alla Dickinson interessa il momento in cui la rassicurante cornice della nostra contemplazione del mondo sta per essere travolta da un altro ordine o disordine naturale (non è pedante ricordare come, ancora bambina, durante un percorso in carrozza un violento temporale provocò il suo stupore, suscitandole l’ebbrezza di tradurle in parole: «I tuoni e i lampi aumentavano d’intensità… Elizabeth [Emily] li chiamava il fuoco…», annoterà la sorella Lavinia.) Quanti anni separano fra loro i testi di Leopardi e della Dickinson (l’uno del 1829, l’altro del 1883)? E quanti ci separano oggi da essi? Le immagini delle ripetute devastazioni che piogge torrenziali e diluvi pre-apocalittici provocano in tutto il mondo, e che i mass-media diffondono su scala planetaria, ci conculcano un’idea nuova della “tempesta”, relegando queste due poesie in una teca d’antan della nostra memoria, in un tempo in cui ogni rovescio temporalesco (e non che mancassero alluvioni!) non impediva alla fine di sospirare il ritorno al confortante quadro della vita come in un antico presepe animato (ecco l’artigiano che torna «a mirar l’umido cielo / con l’opra in mano, cantando / fassi in su l’uscio», e «la femminetta a còr dell’acqua / della novella piova», e «l’erbaiuol» che «rinnova / di sentiero in sentiero / il grido giornaliero», e così via), ovvero di esclamare, usando le parole di Montale con cui traduce, nel tentativo di conservare la rima, il sentimento della Dickinson davanti all’infuriare degli elementi: «il mondo non si muove», che noi possiamo intendere con un più modesto “il mondo è ancora là” (la Guidacci e la Bulgheroni, concordemente, preferiscono «senza che il mondo finisca!»; un’altra traduttrice suggerisce «Mentre il mondo continua!»).

Poesia di un altro secolo, cioè di un tempo che fu? di un mondo in cui vorremmo tornare a vivere, anzi ad essere (meglio che ad avere)? E qui torna utile rileggere la Dickinson attraverso il punto di vista di Montale il quale la assimila e riesce a renderla – forse non più fedelmente ma certo più efficacemente – unica sin da quel «corno» che, in vece di «buccina» (così come correttamente preferiscono gli altri traduttori), rimanda – forse l’avranno notato tutti – al famoso «corno inglese» di un osso di seppia: «Il vento che stasera suona attento / – ricorda un forte scotere di lame – / gli strumenti dei fitti alberi e spazza / l’orizzonte di rame / dove strisce di luce si protendono / come aquiloni al cielo che rimbomba…». Ma la natura che si apre, attraverso i versi della Dickinson, davanti agli occhi di Montale non è quella che, in Corno inglese, si era confrontata con quel senso di “inappartenenza” proprio di un uomo che valica la più angosciante tregua interbellica del sec. XX: se nel testo montaliano, a un certo punto, dopo la favolosa visione di un Eldorado sollevato sulle nuvole, si spalanca una veduta marina su cui si scaglia il vento-tromba, prima di ripiegare romanticamente, al sopraggiungere dell’«ora che lenta s’annera», nello strumento umano più «scordato» di tutti, cioè il cuore, sperando di farne ancora vibrare una corda, ora la natura che s’incide nel breve ma tempestoso bozzetto della Dickinson non cerca l’uomo, anzi non si pone neanche il problema se questi esiste o resiste («We barred the windows and the doors / As from an emerald ghost…»), per contro segue un suo protocollo, in linea magari con qualche pronostico mai smentito come quello sul giudizio universale: pertanto abbatte, sradica, distrugge, a dispetto del dimenarsi delle campane che sembrano “mulinare” le notizie di qua e di là («The bell within the steeple wild / The flying tidings whirled»; ma nell’edizione critica in tre volumi di Thomas H. Johnson, accolta anche dalla Bulgheroni nel Meridiano di Tutte le poesie si legge: «The bell within the steeple wild / The flying tidings told»).

Ed ecco, in vece di guardare dentro di sé, nel suo cuore malandato, il poeta guarda, a saggia distanza, l’andare e venire delle cose, il loro farsi e disfarsi, fuori dal controllo umano, mentre il mondo yet abide the world. Che sia un messaggio subliminale che ci invita oggi a non disperare della capacità del “mondo” di sopravvivere agli scatti d’ira di madre natura, resistendo al suo fuoco, anzi elevando la voce di una poesia che, nella riduzione musicale che ne fece Aaron Copland nel 1958, in Twelve Poems of Emily Dickinson, sa trascinare l’ascoltatore davanti a un tornado che percorre le immense pianure di un continente disabitato? E pensare che solo due anni prima quest’aria di Copland, Montale aveva pubblicato in piena guerra fredda, disperando di una nuova quiete, La bufera, nel cui titolo molta letteratura tempestosa (da Shakespeare a Leopardi alla stessa Dickinson) sembra riecheggiare.

Salvatore Ritrovato

Salvatore Ritrovato (1967), poeta, critico, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Urbino. Fra le sue ultime pubblicazioni, la nuova edizione di La differenza della poesia (Puntoacapo, 2017), e la breve raccolta di versi, Cercando l’isola (Fiorina edizioni, 2017).