13 Ottobre 2024
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Com’è nata la crisi economica italiana

La propaganda economica vive di miti che sono ormai inossidabili. Il primo è quello del debito pubblico. Si dice che il nostro rapporto debito/PIL sia eccessivo, e magari è vero, ma dire solo che è “troppo” è davvero semplicistico. Nessuno polemizza con il Giappone, che vale oggi il 250% nel rapporto debito/Pil. Come fa Tokyo a tenersi in piedi? Semplice: emette JGB, Japanese Government Bonds, a tasso zero o negativo e la Banca di Emissione e gli altri investitori istituzionali li comprano tutti, a qualunque tasso vengano offerti.

Debito e austerità
Poi, il debito pubblico non è mai, appunto, assimilabile a quello privato. Il primo si compone sempre di titoli di varia entità e scadenza, che non arrivano mai tutti a maturazione insieme, ovviamente. Il secondo può arrivarti addosso come un masso, anche se è composto di debiti di varia natura e scadenza. Molti titoli del debito pubblico vengono rinnovati alla scadenza, o sostituiti da altri più “lunghi”. Provate a fare lo stesso con i vostri creditori.
Poi, c’è il mito politico e pseudo-etico dell’austerità. Che, nel senso buono, vuol dire ridurre la spesa pubblica improduttiva. Nella sua variante cattiva, ovviamente la più utilizzata, vuol dire spendere meno e basta. Quindi diminuzione dei salari, crisi degli investimenti, restrizione della base produttiva. È come quel marito che si tagliò i genitali per fare un dispetto alla moglie. Non esiste, ve lo giuro, un manuale di macroeconomia che prescriva una terapia del genere, in una fase di crisi. E non parlo di manuali “keynesiani”, ammesso che i tanti economisti della domenica mattina sappiano cosa vuol dire.
D’altra parte, non c’è un criterio efficace, nella teoria economica attuale, che è tutta “finanziaria”, per definire se una spesa sia produttiva o meno. Si tratta di politica, non di economia fintamente matematizzata. Anzi, provate a cercare una formuletta sciocca di pseudo-matematica nei testi del più grande economista italiano del Novecento, Luigi Einaudi. Rimarrete a secco di equazioni.

Italia spendacciona ?
Altro mito ameno è quello dell’Italia spendacciona, godereccia, che spende i soldi che non ha e fa la cicala, mentre i savi nordici, tutti vestiti di nero come predicatori luterani, risparmiano anche sull’aria.
Anche questo è falso. Ci sono infatti molti saggi e papers accademici, da quello di Storm, un olandese che lavora all’Institute for New Economic Thinking; agli economistes atterées francesi; a un bel paper sul record della deflazione pubblicato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea nel 2004; a tante altre ricerche piuttosto serie.
Ma vediamo i fatti: l’Italia, dopo il Trattato di Maastricht, ha applicato di più e meglio le regole consigliate dalla UE, molto di più di Francia e Germania. Questo sistema ha però “ucciso” l’economia italiana, che già stava male: l’austerità fiscale permanente, la deregulation drastica del mercato del lavoro, che si sente ancora di più in un sistema fatto di Piccole e Medie Imprese, il tasso di cambio Lira-Euro e Euro-importatori, sopravvalutato in entrambi i casi, tutto ciò ha distrutto la domanda aggregata in Italia. La scarsità di domanda ha quindi asfissiato la nostra economia. Ma non tutto viene da Bruxelles, è bene dirlo subito. Anzi, il declino economico italiano è, soprattutto, un caso di masochismo finanziario.
Da una parte, c’è tutta una scuola di potenti economisti, o come altrimenti volete chiamarli, che ritiene l’austerità sia “espansiva”. Accostare due parole dal significato opposto era una tecnica raccomandata anche da Goebbels. Si risparmia su qualcosa, poi si spende di più per espandere l’economia, siamo al bambino che vuole raccogliere il mare nella sua buca di sabbia. Se poi si fa una completa deregulation del mercato del lavoro, argomentano questi illustri economisti, aumenta di per sé l’occupazione e il Pil. Beato chi ci crede. E i salari? A questa domanda cominciano a fischiare e guardare in alto.
Vediamo ancora i dati: dal 2008-2010 la disoccupazione giovanile passa dal 25% al 43%, dato del 2014 (fonti ISTAT) mentre il tasso di disoccupazione degli adulti passa dal 7% nel 2008-2010 al 12% nel 2014. I disoccupati giovani italiani sono il doppio della media EU. Se poi mettiamo nel dato standard anche le quote dei sottoccupati, degli scoraggiati, dei part time a salario minimo, allora si arriva, sempre sulla base dei dati ISTAT, al 31% di disoccupazione reale per ogni anno tra il 2013-2017, sempre il doppio della disoccupazione nell’Europa del Nord.
Il tasso di povertà è salito dal 14% della popolazione totale, nell’arco 2004-2006, al 19% tra il 2012 e il 2014, siamo passati in tre anni da 3,4 milioni di poveri alla cifra, politicamente pericolosissima, di 11,5 milioni.
Per quelli che lavorano, i dati non sono meno sconfortanti: le entrate delle famiglie, a prezzi costanti del 2010, escludendo però le rendite finanziarie, sono passate dai 27.449 Euro nel 1991, calcolando il passaggio Lira-Euro al tasso di cambio e sempre a prezzi costanti del 2010, ai 23.277 Euro nel 2016, con una perdita di circa il 10% che si è realizzata in 15 anni.
I più ricchi hanno però perso di meno, il 6% del reddito, mentre il 25% più povero tra le famiglie italiane ha perso, sempre a prezzi costanti del 2010, il 15% del reddito annuale.
Il contrario, l’esatto contrario, è successo prima del 1992. Nel 1960, il Pil pro capite italiano era arrivato all’85% di quello francese, nei primi anni ’90 l’Italia aveva quasi raggiunto il Pil pro capite francese (il 97%) e il 94% di quello medio degli Europei del Nord, le ben note formiche. Oggi, il differenziale tra i redditi francesi e italiani è di ben 18 punti-base, e il Pil pro capite italiano è il 74% del Pil a testa dell’area Euro-4, le economie del Nord UE. L’inizio del declino si situa quindi prima del Trattato di Maastricht, la città dove morì D’Artagnan, all’assedio del 1673.
Già nel 1992, l’indebitamento netto delle finanze pubbliche italiane era il 10% in più del totale del Pil; e fin da allora il rapporto debito/Pil vola sopra il 100%. Per risolvere la questione, i governi di allora iniziarono un fortissimo consolidamento fiscale, tra tagli alla spesa e aumenti di tasse, che riguardò una cifra pari a oltre il 6% del Pil di allora. Nessun Paese che aveva siglato il Trattato di Maastricht fece di più, ma occorre ricordare che il passaggio all’Euro, per tutti i Paesi che lo hanno adottato, significò forti restrizioni all’indebitamento pubblico, il che li portò ad aderire automaticamente alla disciplina del mercato mondiale dei titoli di Stato. Che è fortemente competitivo.

Italia tafazziana
Insomma, per paura di essere messi fuori dall’Euro, gli statisti italiani (allora ce n’erano ancora) furono più realisti del Re di Bruxelles. Nel 1992 il rapporto debito/Pil era già sopra il 100%, lo abbiamo visto, e arriva al 117% nel 1994. Ma nel 2002 siamo già al 102% e a meno del 100% nel 2007. Una restrizione di spesa del 3% annuo, ma sostenuta per ben quindici anni di seguito. La Francia aveva fatto molto meno: una riduzione della spesa pubblica dello 0,1% annuo, dal 1995 al 2008. Ma, nello stesso periodo, il consolidamento fiscale italiano era causato più da restrizioni di spesa che da aumenti delle tasse.
La spesa pubblica italiana, al netto della spesa per interessi sul debito pubblico, era allora minore di quella belga, francese e tedesca. Oggi, il ministero dell’Economia italiano ha valutato che le politiche di austerità dal 2012 al 2015 abbiamo ridotto il Pil italiano del 5%, e gli investimenti del 10%. Il governo francese, nella fase 2008-2018, ha mantenuto un deficit primario, come hanno fatto tutti gli altri governi Euro-4. Quando piove si apre l’ombrello.
E non parliamo della riduzione della spesa per il welfare, che in Italia si è ridotta oggi ad essere l’80% circa di quella francese.
Insomma, abbiamo fatto i compiti di Maastricht, ma in condizioni di partenza durissime, che hanno definito fin dall’inizio una supremazia franco-tedesca, per poi restringere la spesa pubblica più di quanto abbiano fatto gli altri dell’area Euro. E siamo anche partiti da una parità Lira-Euro del tutto eccessiva, che ha penalizzato tutta l’industria italiana.
Italiani, brava gente…