25 Aprile 2024
Words

Caduta del regime repubblicano

Gli Stati Uniti sono agli sgoccioli di un regime, e non parlo del regime costituzionale liberal-democratico (credo che per quello bisognerà aspettare ancora), bensì del regime politico-sociale repubblicano conservatore nato all’incirca mezzo secolo fa. Che quel regime finisca con disordini sociali e spasmi istituzionali non dovrebbe sorprendere, è già successo in altri passaggi cruciali del passato. Che disordini e spasmi abbiano le caratteristiche specifiche che abbiamo visto in questi giorni, queste settimane, questi mesi, questi anni, dipende dalla forma specifica che il regime ha assunto con l’ultimo presidente, un presidente che come lui non se n’era mai visti. E questo sì, può sorprendere, ed è una sorpresa che dura dalla sua elezione vittoriosa (un po’ per caso), non dalla sua sconfitta (dopo un solo mandato) che è anche una sconfitta di quel regime nella sua fase degenerata.

Il regime politico-sociale repubblicano conservatore, concepito negli anni della presidenza Nixon, anche come reazione alla rovina di Nixon nel Watergate, e nato con la presidenza Reagan, ha avuto la sua età dell’oro nell’ultimo ventennio del Novecento. Ha plasmato le politiche del periodo, ha creato il contesto ideologico in cui hanno agito anche i presidenti democratici, Clinton e un po’ Obama. Poi ha cominciato a frangersi sugli scogli dei suoi stessi effetti, diventati problemi. Troppa deregulation (il governo come problema)? Troppe diseguaglianze economiche e una mobilità sociale ferma o verso il basso (cose micidiali nella repubblica democratica)?. Grandi migrazioni, molte di popoli di colore? Cambiamenti demografici destabilizzanti, con imori razziali e razzismi che non vogliono scomparire perché sistemici?  E di conseguenza, un’accesa polarizzazione partitica?

Con la pandemia che alla fine ha esasperato tutto, compresi gli animi.
I problemi sono venuti al pettine (e qui mi limito a considerazioni di politica interna, i cambiamenti internazionali sono altrettanto rilevanti) perché la maggioranza repubblicana conservatrice è, nel frattempo, diventata minoranza. Una minoranza che negli ultimi tempi è stata in grado di governare contando sugli aspetti anti-maggioritari del sistema politico, il collegio presidenziale, il Senato federale, il redistricting manipolato della Camera. Ma questi vantaggi non possono essere per sempre, e a un certo punto l’odore del pericolo si è fatto penetrante. E infatti, sotto l’ombrello del partito democratico, si è formata una nuova coalizione politico-sociale, multietnica e multirazziale, che è maggioritaria nel paese e che aspira a esserlo nelle istituzioni.

E che, dopo il tentativo obamiano del 2008, c’è infine di nuovo riuscita.
Sotto la presidenza Trump sono giunti a maturazione fenomeni che si sono accumulati nei decenni del predominio conservatore e che sono esplosi quando il predominio ha cominciato a scricchiolare. Discutere qui delle motivazioni di 74 milioni di elettori repubblicani è assurdo, fra l’altro molti sono repubblicani e basta, la vecchia fedeltà di partito, no? Ma volendo semplificare le ragioni (e le fantasie) espresse da chi fra loro ha fatto movimento, ha dato senso al trumpismo, direi così: la grande paura bianca più la paura di cadere, cioè la paura di perdere status civile ed economico, di perdere controllo, di perdere rilevanza politica e white privilege di ceti popolari medio-bassi (lascerei perdere la working class). Le convinzioni (e fantasie) di chi ha dato l’assalto al Congresso, e combinato vari precedenti misfatti, sembrano avere le radici lì, ma come accade per i gruppi organizzati, si nutrono anche di ideologie specifiche più o meno elaborate e di percorsi individuali stravaganti.

Fra le cose che sono successe nella settimana di passione, non c’è stata solo quella clamorosa, l’assalto appunto. Ce n’è stata un’altra altrettanto importante. La folla eversiva eccitata dal presidente, quasi tutta bianca-come-il-giglio e con simboli white-supremacist, ha occupato con la violenza il Congresso più o meno nelle stesse ore in cui la Georgia ha eletto due senatori democratici.  Un fatto non da poco, in uno stato dove negli ultimi decenni i democratici hanno vinto raramente, e dove fino a cinquant’anni fa c’era la segregazione razziale per legge, c’era Jim Crow. Ora ci sono il primo senatore afro-americano della sua storia, e il primo senatore ebreo. Se la solitaria battle flag confederata nel Campidoglio federale ha evocato suggestive possibilità storiche (o cinematografiche), così ha fatto la ben più solida presa di Atlanta.

Credo che questa doppia immagine sia una fotografia del conflitto in atto che contiene anche gli elementi dinamici del suo superamento, dato l’evidente squilibrio a favore del sistema costituzionale democratico e delle forze che lo animano. Dopo tutto la settimana di passione ha anche visto il concludersi delle procedure che certificano la presidenza e vice-presidenza di Joe Biden e Kamala Harris. Ha anche visto la tenuta del federalismo, con l’inutile tentativo di Trump di piegare ai suoi voleri il funzionario di uno stato che, in quanto tale, benché dello stesso partito del presidente, con il presidente federale nulla ha a che fare (la settimana era cominciata così, anche se sembra un secolo fa). E ovviamente i nuovi senatori della Georgia dicono che il partito di Biden avrà, sia pure per il rotto della cuffia, il controllo di entrambe le camere del Congresso.

E’ ben troppo presto per parlare di una crisi della democrazia.
E’ una crisi dentro la democrazia, senza dubbio, come altre e non meno drammatiche ce ne sono state nell’ultimo secolo. Gli anni trenta del Novecento, per dire, quelli della grande paura fascista raccontata da Siclair Lewis nel romanzo distopico It Can’t Happen Here. O la gran tempesta che, fra il 1968 e il Watergate, fra omicidi politici, rivolte e repressioni di piazza, appelli alla lotta armata, si concluse con tentativi di sovversione provenienti dal cuore stesso della Casa bianca (non è la prima volta con Trump, anche se i modi erano diversi). In entrambi i casi, non a caso, si è trattato di tribolate crisi di transizione fra due diversi regimi politico-sociali, quando il vecchio stava morendo e il nuovo cercava di nascere, all’inizio e alla fine del regime del New Deal.

In entrambi i casi, il paese ne è uscito – non pacificato o miticamente unito, ci mancherebbe, che pretesa è mai questa in una democrazia? – ma con grandi trasformazioni.
Se l’amministrazione Biden abbia l’energia trasformativa capace di uscire dalle rovine del vecchio regime e fondarne uno nuovo, liberal-progressista, questa è naturalmente la domanda cruciale. Sembrava il compito storico di Obama, il suo destino azzoppato e infine paralizzato rende cauti nelle valutazioni. Credo che le intenzioni ci siano, a giudicare dai programmi e dal personale reclutato, che disegnano un governo coeso, forse più di quello di Obama, un governo robustamente di partito. Anche dal punto di vista della composizione etnica e razziale, visto che rispecchia non tanto l’America, come ripetono Biden e Harris, quanto i democratici di oggi. C’è una ministra con radici pre-colombiane (ed è la prima volta), ci sono afro-americani e ispanici e asiatici. E i bianchi sono cattolici irlandesi (e italiani) o ebrei.

Sono di fatto scomparsi i bianchi protestanti, che rappresentano un terzo della popolazione e la principale base elettorale repubblicana. E magari, non so, questo potrebbe essere un problema.