19 Aprile 2024
Voice of Jerusalem

Governo del cambiamento

Adesso lo possiamo dire. Dopo venti anni di governi di destra, dopo dodici anni ininterrotti di Netanyahu, adesso in Israele c’è un nuovo governo. Una parte della destra (quella che non vuole più Netanyahu) ha deciso di mettersi assieme al centro, a quello che rimane della sinistra e ai partiti arabi per il «governo del cambiamento». Quattro elezioni in due anni e uno scontro di 11 giorni con Gaza in cui nessuno ha guadagnato niente – Hamas ha sparato 5.000 missili, Israele ha mostrato la sua forza militare, 250 persone sono morte, e tutto è peggio di prima per entrambe le parti – impongono una ricostruzione: del campo politico, delle relazioni tra i cittadini israeliani, di quelle con buona parte del mondo esterno.
Un governo che ha ottenuto la fiducia di un soffio – 60 parlamentari contro 59 – che sarà soggetto a notevoli pressioni esterne – Netanyahu ha annunciato che il governo cadrà ancora prima che si pensi, e già due parlamentari minacciano di togliere il sostegno. Un governo che proprio per la sua debolezza potrà fare poche cose, ma che al tempo stesso dovrà confrontarsi con temi enormi.

C’è anzitutto la necessità di costruire una società nazionale in cui tutti abbiano gli stessi diritti. Circa il 20% della popolazione d’Israele è di lingua araba e di religione musulmana o cristiana; ha un alto tasso di povertà (oltre il 44% delle famiglie); ha problemi di accesso ai servizi statali, il più emergente dei quali è l’abitazione. Durante lo scontro armato con Gaza questa popolazione ha manifestato in massa contro lo Stato – sia nei paesi a maggioranza araba sia nelle città miste come Haifa, Akko, Lod, Jaffa – per la guerra ma soprattutto per il trattamento storicamente da cittadini di ‘serie B’. Le comunità arabe – insieme a quelle ultra-ortodosse ebraiche, che puntano alla conservazione dei privilegi e non a caso i suoi rappresentanti sono fuori da questo governo –rappresentano una grande sfida strutturale alla giustizia sociale israeliana, al suo sistema educativo, alla sua economia fatta di successi mondiali. E questa sfida deve essere affrontata, se non si vuole che a lungo termine venga minacciata la stabilità d’Israele.

C’è da ricostruire una relazione positiva con gli Stati Uniti, messa gravemente in crisi dall’amministrazione Trump che convintamente appoggiava il divisivo Netanyahu. A partire dal tema di sempre, e cioè l’enorme problema dei diritti – umani, civili, politici – dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza. È una questione politica lunga più di cinquant’anni: nel 1995, dopo quasi trent’anni di occupazione (e di errori, certamente) di Cisgiordania e Gaza, la sinistra con Rabin siglò il Trattato di Oslo, ma Rabin venne ucciso per questo; e poi ancora nel 2000 il Primo Ministro laburista Ehud Barak quasi giunse a un accordo, ma la camminata di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee (e un rincorrersi di provocazioni da una parte e dall’altra) mandò tutto all’aria.
I governi di destra hanno sempre perseguito l’isolamento dei palestinesi e il tentativo di far dimenticare la loro causa, hanno continuato la conquista dei terreni con vari mezzi e la «ebraicizzazione» dell’intera Gerusalemme e l’ulteriore restringimento dei diritti dei palestinesi della città. Basti pensare che quando Trump presentò il proprio piano, che concedeva ai palestinesi solo alcune piccole isole, questo fu bocciato dai coloni israeliani di Cisgiordania (in maggioranza elettori del Likud di Netanyahu): se dai un piatto di lenticchie a chi non ha niente, già quel piatto è un di più.

Ma i palestinesi esistono e sono sempre lì, nonostante gli occupanti e nonostante il fallimento della sua classe dirigente che non ha raggiunto alcun risultato né a Gaza né in Cisgiordania, e come ogni popolo nella loro condizione si ribellano anche solo per disperazione.

Durante la Guerra di Gaza una parte del partito Democratico statunitense (l’ala sinistra, guidata dell’ebreo Bernie Sanders) ha espresso sentimenti pro-palestinesi senza precedenti. Già all’inizio, 25 parlamentari hanno definito lo sfratto di palestinesi a Gerusalemme Est una violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. Poi le forze di sicurezza israeliane hanno subìto pesanti critiche quando, durante il Ramadan, sono entrate sul Monte del Tempio e hanno sparato granate stordenti contro i manifestanti palestinesi, un incidente che ha offeso la sensibilità di molti politici che non avevano ancora espresso condanne pubbliche contro le recenti azioni d’Israele. La critica è diventata sempre più pubblica dopo che Hamas ha sparato razzi verso Gerusalemme: i progressisti hanno ritenuto la risposta militare di Israele una violazione, e hanno criticato l’amministrazione Biden per non aver condannato l’uso della forza da parte d’Israele.
Si è formato un blocco di sostegno ai palestinesi e di critica a Israele, mai visto nelle aule del Congresso. Mentre un gruppo ha difeso il diritto di Israele all’autodifesa, condannando il lancio di razzi da Gaza, il blocco filo-palestinese ha condannato la politica israeliana di lunga data nei confronti dei palestinesi, ritenendo fondamentalmente ingiusta la continua negazione dei diritti fondamentali delle persone.

Quasi la metà dei legislatori ebrei alla Camera ha tentato di ricomporre il divario esortando il presidente Biden a fare di più sul conflitto israelo-palestinese, e i membri della commissione per le relazioni estere della Camera hanno chiesto all’amministrazione d’interrompere la vendita di armi a Israele durante un’operazione militare, mettendo in discussione questo fatto per la prima volta in assoluto.
L’amministrazione Biden ha messo al centro della propria azione la difesa dei diritti umani in tutto il mondo, e anche in Israele si avvertono i primi segnali di cambiamento di rotta. Il Segretario di Stato Tony Blinken, nel suo primo viaggio in Israele e Cisgiordania alcuni giorni fa, non ha mancato di sottolineare, accanto al diritto d’Israele di difendersi, la necessità del rispetto dei diritti dei cittadini palestinesi.
Inoltre, Biden ha annunciato l’impegno per la ricostruzione di Gaza, per la prima volta: «gli Stati Uniti rimangono impegnati a lavorare con l’Onu e gli altri partner internazionali per rilanciare rapidamente l’assistenza umanitaria e guidare il sostegno internazionale alla popolazione di Gaza e alla sua ricostruzione», ha dichiarato. E intanto ha scongelato 235 milioni di dollari destinati all’Agenzia per i rifugiati palestinesi (Unrwa) che Trump aveva bloccato.

Il nuovo governo israeliano dovrà quindi affrontare il tema della relazione con la Cisgiordania e Gaza: la democrazia e i successi in campo economico che richiamano l’attenzione mondiale sempre più si concilia male con il permanere dell’occupazione senza che si arrivi alla sua conclusione.
Ma già un primo segnale si vede. Il nuovo ministro degli Esteri Yair Lapid, nel suo primo discorso ha detto che Israele deve cambiare il modo in cui tratta con i Democratici statunitensi, che sono stati abbandonati dall’ex primo ministro Netanyahu. «I repubblicani sono importanti per noi, ma non solo loro. Ci troviamo di fronte a una Casa Bianca democratica, un Senato democratico e un Congresso democratico. E questi democratici sono arrabbiati». Anche le relazioni con troppi Stati dell’Unione Europea sono state trascurate, e questo è diventato un problema. «Gridare che ‘tutti sono antisemiti’ non è una politica o un piano di lavoro. Penso che ci sia bisogno di un cambiamento per approfondire il dialogo tra Israele e l’Europa».