8 Dicembre 2024
Culture Club

Non aver bisogno di pranzi – Poetica di Martin Eden

Non si tratta di una partita a scacchi. E non si tratta di un gioco letterario – si tratta, piuttosto di un gioco di un uomo con la letteratura. E questo gioco ha le sue mosse (12) esposte sotto forma di verbi, di verbi all’infinito. Ogni verbo, di per sé, «indica azione, stato, o divenire». Il tempo dell’infinito poi esprime il concetto di un verbo senza rendere esplicito né un tempo particolare e nemmeno le varie persone che agiscono all’interno del verbo. Vediamo, dunque: questi dodici verbi infiniti.

1) Lottare: Martin Eden nel corso di una rissa aiuta e salva Arthur Morse (fratello di Norman e Ruth).

2) Innamorarsi: Martin non tarda a innamorarsi di Ruth e pian piano si farà amare anche da lei.

3) Scrivere: Martin inizia a scrivere qualche novella, e man mano altre cose più impegnative (ma anche meno: la letteratura “utilitaria”.

4) Disilludersi: i suoi racconti vengono respinti sistematicamente dalle riviste americane di letteratura – siamo a Oakland, ottava città della California (per grandezza) sulla costa est della baia di San Francisco.

5) Leggere: soprattutto leggere Herbert Spencer (nato in Inghilterra, a Derby, il 27 aprile del 1820, precisamente 56 anni prima di John Griffith Chaney noto con lo pseudonimo di Jack London, che pubblica questo romanzo nel 1909 ovvero 6 anni dopo della morte di Spencer avvenuta a Brighton l’8 dicembre 1903): e quindi il “darwinismo sociale” o meglio ancora cosmico: ogni cosa (sia essa fisica o metafisica) segue il dettato dell’evoluzione.

6) Lavorare: Ruth lo ama ma insiste perché Martin si trovi un lavoro anzi, come dice lei, un impiego: scrivere non è un vero lavoro…

7) Conoscere (nel senso di farsi conoscere): Russ Brissendem (l’unico personaggio veramente riuscito di tutto il romanzo) conduce Martin da alcuni suoi amici intellettuali: non basta leggere libri; è necessario anche il confronto con chi ha letto anch’egli dei libri.

8) Impegnarsi: tra tutto il suo lavoro compulsivo e frenetico rispetto alla sua scrittura (e tra tutte le letture fatte), Martin trova il tempo, come diceva Francesco Guccini nella canzone Amerigo (title track e «prima traccia» dell’album omonimo, pubblicato nel 1978), di annusare e frequentare “ancora vaghe idee di socialismo”.

9) Lasciarsi: Ruth (al seguito della sua borghesissima famiglia) decide di lasciare Martin, troppo preso dal suo ego, dai suoi progetti strampalati (cantava Eugenio Finardi di Vil Coyote, canzone contenuta nell’album Il vento di Elora del 1989), del suo dilettantismo e velleitarismo.

10) Riconoscere: Martin Eden, autodidatta, viene riconosciuto dall’establishment letterario americano come un grande autore. I suoi racconti, i suoi saggi e le poesie vengono pubblicati dalle più importanti riviste del settore. Successo, gloria, soldi, agiatezza.

11) Spendere: meglio spendere i propri soldi per far felici le persone a lui più care, gli amici, le sorelle (Getrud e Marian), i cognati che, però, avevano fatto di lui peggio di quello che ne aveva fatto Ruth.

12) Morire: Perché no? Morire in fondo al mare.

Martin Eden scaraventando in una disamina crudele e puntuale del mondo letterario dell’epoca nella quale è stato scritto, è un romanzo di in-formazione: tutti questi verbi, e tutti questi verbi all’infinito ci informano di un’azione, di uno stato, di un divenire, senza rendere esplicito un tempo o le persone che agiscono, che è stato comune, che è comune e che sarà sempre comune a centinaia di migliaia di giovani “esordienti”, i quali sognano un futuro nel mondo delle “belle lettere”.
In questo senso – e nel senso delle mosse del gioco tra autore, produzione e mondo editoriale – Martin Eden è un romanzo pienamente metafisico.

Perché si uccide Martin? Sembra che London imposti tutto il romanzo solo per dare risposta a questo interrogativo. La faccenda non è complicata e non riguarda solo la piccola-borghesia tanto deprecata dal nostro protagonista. Quando Martin, nella prima scena del libro, entra in casa Morse: «Nei suoi occhi apparvero nostalgia e avidità, come l’avidità appare negli occhi dell’affamato alla vista del cibo».

Martin ha visto dei libri… Martin Eden è un giovane spiantato, crede nella lettura, imparerà a credere nella scrittura (anche se pone in essere l’equazione: scrittura →successo→amore) il che vuol dire che il successo è materia propedeutica rispetto all’amore. Cosa che Ruth gli dimostrerà esattamente provata e fondata ma che, lui, nauseato ormai da tutto, si accorgerà di avere inseguito stupidamente e malamente), imparerà, a sue spese, quanto possa essere ingombrante e pesante l’universo piccolo-borghese («Tutto si protendeva verso di lui per afferrarlo e tenerlo giù: sua sorella, la casa, la famiglia di sua sorella, Jim, l’apprendista e tutti quelli che conosceva»). Imparerà che non è solo l’Universo piccolo-borghese a contare ma anche la solita straziante routinaria vita quotidiana, e inoltre capirà che per lui varrà quella sentenza espressa da Fabrizio De Andrè rispetto a Un matto (dall’album Non al denaro non all’amore né al cielo del 1971): «Per stupire mezz’ora basta un libro di storia/io cercai di imparare la Treccani a memoria». Martin legge, si informa (il suo romanzo è infatti – come detto – un romanzo di “in-formazione”), si da dà fare. Invia testi scritti alle riviste: «Quello che voleva erano bellezza e intelletto e amore».

Ha le idee chiare e ha le idee confuse, come tutti gli esordienti nel mondo della letteratura.La sua “formazione” è una “in-formazione”: come si scrive? Come scrivono gli altri? Come scrivono quelli che sono riusciti a farsi pubblicare? «Ma il suo guaio principale era il fatto di non conoscere né direttori né scrittori. E non solo non conosceva scrittori; ma non conosceva neppure qualcuno che avesse mai tentato di scrivere. Non c’era nessuno che poteva parlargli o dargli un suggerimento o la minima parola di consiglio». Meno che mai la “sua” Ruth Morse: «Se avesse avuto quattordici anni invece di ventiquattro, avrebbe potuto cambiare; ma aveva ventiquattr’anni, era conservatrice per natura e per educazione, e già era cristallizzata in quella celletta della vita nella quale era nata e si era formata».

Pura “monade” leibniziana («in quella celletta»), Ruth è addirittura un personaggio, dal punto di vista psichiatrico, molto complesso; infatti la ragazza non è affatto capace di humor. Scrive Jack London che «Ella era afflitta dal solito isolamento mentale che fa credere agli esseri umani che il proprio colore, il proprio credo, la propria politica siano ottimi e giusti, e che tutti gli altri esseri umani, sparsi per il mondo, siano meno favoriti di loro».

Ma, a parte Ruth, Martin si “in-forma” sull’amore, sulle costumanze piccolo-borghesi, sul mondo dell’editoria, sui compensi pagati per i propri scritti: Russ Brissendem (sbagliando, tra l’altro, una «piccola» cosa nel finale del suo discorso) gli dice: «”Ama la Bellezza, per amor della Bellezza” fu il suo consiglio, “e lascia stare le riviste. Torna alle navi e al mare, questo è il mio consiglio, Martin Eden. Cosa cerchi nelle città degli uomini, malate e corrotte? Ogni giorno che ci sprechi, cerando di prostituire la bellezza alle esigenze delle riviste, equivale a un suicidio. Cos’è che mi hai citato l’altro giorno? Ah, sì, L’uomo l’ultima delle effimere. E dunque, che te ne fai della celebrità, tu ultimo delle effimere? Se l’ottieni, ti avvelenerà. Sei troppo semplice, troppo elementare, troppo razionale, parola mia, per nutrirti di una pappa simile. Spero che tu non venda mai una riga alle riviste. La bellezza è la sola padrona da servire. Servila e al diavolo la plebe. Il successo! Che diavolo è il successo, se non è già nel tuo sonetto su Stevenson, che supera L’Apparizione di Henley, e nel Ciclo d’amore , e in quelle poesie sul mare? Non è in quello che si riesce a fare che si trova la gioia, ma nel farlo».

La verità è, invece, che non c’entra niente il tragitto, il viaggio e l’itinerario (per raggiungere qualcosa, anche nel senso delle filosofie orientali), ma è proprio «in quello che si riesce a fare» con fatica, stenti, dedizione e magari anche compromessi, che risiede non solo la gioia, ma l’intero senso dell’esistenza delle persone (o almeno: di quelle che “fanno” qualcosa).

Dunque Martin si “in-forma” (per tutto il corso del romanzo) e la sua esperienza di vita è metafisica: egli è uno di noi, il vicino di appartamento che sta tutto il giorno chino sui libri, lo studente volenteroso e brillante che sente di avere tutto un futuro davanti a sé; la persona comune che insegue una propria ipotesi di vita al di là di tutte le hegeliane contraddizioni del reale.

Perché si suicida alla fine Martin? Si diceva che la “colpa” non è tutta dell’Universo piccolo-borghese che egli si trova davanti (e che tra l’altro, seguendo le teorie di Spencer: egli avrebbe dovuto giudicare come una legge ineluttabile, esatto portato dell’evoluzione e dell’adattamento).

Ruth, intanto: «Non le riusciva di sollevarsi al di sopra del proprio ambiente». Per quanto riguarda amici, conoscenti, sorelle, padre e madre di Ruth, suoi fratelli e Ruth stessa: «Non c’erano parole sufficienti nella lingua inglese, né in nessun’altra lingua, per rendere loro intellegibili la sua condotta e il suo atteggiamento. Per loro, la concezione più elevata della buona condotta era trovar lavoro. Quella per loro era la prima e l’ultima parola. Costituiva tutta la loro scorta di idee! Trova un lavoro! Mettiti a lavorare!». Notevole e lapidaria questa definizione dell’ambiente piccolo-borghese in London: «tutto ciò costituiva tutta la loro scorta di idee». Ma Martin, perseguitato dalla fame e dalla sete, pieno di debiti da pagare, perennemente in miseria, costretto a un lavoro inumano in una lavanderia, a successo avvenuto, ha un presentimento: «Una sola cosa lo lasciava perplesso, una piccola cosa che avrebbe lasciato perplesso il mondo se l’avesse saputa. Il giudice Blount lo aveva invitato a pranzo. Questa fu la piccola cosa, o meglio, il principio della piccola cosa, che ben presto doveva diventare la cosa grossa. Egli aveva offeso il giudice Blount e lo aveva trattato in modo abominevole, e il giudice Blount, avendolo incontrato per la strada, lo aveva invitato a pranzo. Perché non lo aveva invitato a pranzo allora? Si domandò. Egli non era cambiato. Era lo stesso Martin Eden: In che consisteva la differenza? Nel fatto che la roba da lui scritta era apparsa dentro la copertina dei libri? Ma era lavoro già eseguito. Non era una cosa che egli aveva fatto dopo di allora. Era lavoro eseguito proprio ai tempi il giudice Blount condivideva l’opinione generale e si faceva beffe di Spencer e del suo intelletto. Perciò non era in riconoscimento di un valore reale, ma in omaggio a un valore fittizio che il giudice Blount lo invitava a pranzo». Questo presentimento diventa una certezza: «Aveva molti inviti a pranzo e ne accettava qualcuno. La gente si faceva presentare a lui pere poterlo invitare a pranzo. Ed egli continuava a pensare, perplesso, a quella piccola cosa che stava diventando una cosa grossa. Bernard Higghinbotham lo invitò a pranzo. La sua perplessità aumentò. Ricordò i giorni della sua fame disperata, quando nessuno lo invitava a pranzo. Quello era stato il tempo in cui aveva  bisogno di pranzi ed era debole e languido per mancanza di cibo e dimagriva dalla fame. Lì stava il paradosso delle cose. Quando aveva bisogno di pranzi, nessuno gliene dava, e ora che poteva comprare centomila pranzi e stava perdendo l’appetito, i pranzi gli venivano dati per forza, a destra e a sinistra. Ma perché? Non c’era giustizia nella cosa, non c’era merito da parte sua. Egli non era diverso. Tutto il suo lavoro era, fin da allora, lavoro eseguito».

Non aver bisogno di pranzi in un mondo nel quale tutti ti offrono pranzi: ti offrono il superfluo, Karl Marx direbbe il “plusvalore”, ciò che non è necessario. Ma se non è necessario un pranzo uno mangia controvoglia o non mangia affatto o non va per nulla al pranzo. Non gli interessa! Ecco perché muore Martin Eden. Egli si accorge che non aver bisogno di pranzivuole dire che a tradirlo non è stato solo l’Universo piccolo-borghese ma anche gli altri esseri umani stessi. Ecco perché la sua fine non è imputabile alla sola piccola-borghesia. Egli continua a ripetere, infatti: io non sono cambiato, io non sono diverso; come direbbe Joann Gottlieb Fichte: «io sono io», allora come adesso; metafisicamente io sono tutti gli aspiranti scrittori e lettori di questo mondo, io sono senza tempo, io sono quello che stava male un tempo e quello che «offre pranzi» oggi.

La morte di Martin Eden, in fondo al mare: è la testimonianza e l’affermazione di un’identità che è rimasta sempre la stessa!

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.